Silenzio di terra

teatro-contraddizioneC’è un teatro politico, sociale, narrativo, cosciente e coscienzioso. E poi c’è un teatro politttttttico, con sette t. Sette t che scompongono ideologie e buonismi aggiungendo complessità, volti e sfumature alla sacralità del polittico. Politttttttico – scrivono Marco Martinelli ed Ermanna Montanari nel loro libro Primavera Eretica – “è sapere che non possiamo cambiare il mondo, ma qualcosa, in qualche angolo, qualcosa di noi, di qualcun altro, dispersi su un piccolo pianeta che ruota attorno a un sole di periferia”.

Politttttttico è l’incontro tra il Teatro delle Albe e il Teatro della Contraddizione, tra sguardi inquieti che si riconoscono nella ricerca di un altrove da sempre qui e di un qui, di un “noi” reperito chissà dove, tra quegli “altri” che abitiamo e che ci abitano. Tra l’alba e la contraddizione c’è Rumore di acque – lavoro di Marco Martinelli, scritto nel 2010 e riallestito oggi in una versione più agile, in risposta alla grande richiesta del pubblico e all’attualità della tematica.

Nel rumore di acque non si legge. La vista serve a poco quando è tutto “nero come la notte e blu come la paura”, quando il barcone in mezzo al mare ondeggia nel nulla di cieli senza stelle, in attesa che il motore si spezzi e che – patatrac – i sogni si spengano. La vista serve a poco anche a riva, a quel Generale – Alessandro Renda – la cui pratica di “accoglimento” consiste nel decifrare i numeri degli affogati. Ordine e chiarezza. Questo ci vuole. E invece no, proprio non ci si legge. Sarà un 1? O forse un 7? Numeri piccoli che compongono numeri enormi. Come 2917, che poi sarebbe Yusuf, un ragazzino del Sahara Occidentale che, spavaldo, decide di portare la sua barchetta piena di migranti oltre la laguna di Naila, oltre fenicotteri rosa, pesci e capre nella bassa marea. Via, verso le Canarie e la Spagna. Giù, inghiottiti nei flutti marini appena fuori la laguna.

Il Generale sbuffa e gracchia solitario, in penombra, circondato solo da una spirale di carbone e da un ammasso di “spiriti liquidi” che non lo lasciano in pace. Tronfio delle sue medaglie, inveisce contro i pesci: sono loro gli assassini che con furia cieca e indistinta dilaniano i corpi e le speranze di tutti quegli uomini, donne, bambini, di tutti quegli 1, 5, 7, cento, mille. Quei dannati pesci che se li mangiano cancellando i loro numeri, impedendo a lui – il Generale, il Presidente, il favorito del Ministro dell’Inferno – di svolgere il suo duro e sporco lavoro.

Alessandro Renda veste i panni di un grottesco Gheddafi burocrate, la cui grande forza scenica ed emozionale sta nell’ambivalenza: se da una parte assistiamo a quell’anestetizzante conteggio mortifero che suscita un immediato disprezzo nei suoi confronti, dall’altra però vediamo anche un uomo che brancola tra quegli spettri che cerca invano di scacciare attraverso numeri irrimediabilmente indecifrabili. Schiacciato dal potere dell’Istituzione che gli fa credere di essere importante, riempiendogli la divisa di medagliette, mentre lui esegue gli ordini, senza nemmeno la consapevolezza che si ostina a mettere in bocca ai migranti, con il suo “voi lo sapevate che nessuno vi avrebbe tirato fuori”.

E tra i fantasmi ci sono le storie, pezzi di vite che sfuggono alla burocrazia, che si intravedono tra le note registrate della fisarmonica di Guy Klucevsek. Come quelle 77 teste, braccia e gambe ammassate, schiaffeggiate dalle onde in attesa dei soccorsi. E i soccorsi arrivano, capeggiati niente meno che dall’Ammiraglio, figlio di una nobile stirpe di Ammiragli, che però sbaglia qualcosa: non spegne le eliche e quel numero 77 si scompone in un groviglio di arti senza più nome né corpo. E poi Sakinah e le 44 fanciulle nigeriane obbligate a partire, dopo gli stupri dei trafficanti e dei poliziotti nel deserto, per vendersi ai bianchi; finite sul fondo del mare con “le ossa mutate in corallo e le perle al posto degli occhi”. O il piccolo Jean-Baptiste, che cerca di resistere grazie ai “gri gri” della mamma, fatti di sabbia, ossicini e formule magiche; ma che poi si tuffa e nuota verso di lei, sprofondando, come gli altri, negli abissi di quell’informe mare nostrum. L’unica che si salva è Jasmine, sempre che si salvi davvero, sempre che il finire a servire in tutto – ma proprio in tutto – un ricco ottantenne occidentale possa chiamarsi salvezza.
Tutti gli altri numeri, che scorrono a caratteri cubitali sullo schermo, hanno per nome un “non identificato”.

L’abilità di Martinelli e la grandezza di questo spettacolo stanno nella rinuncia alla solita narrazione lacrimevole che siamo ormai tristemente abituati a trovare nei telegiornali, nei documentari, nelle foto di bambini riversi, sputati fuori dal mare, che riempiono le pagine dei quotidiani. La rinuncia a una violenza strumentale, brandita e vomitata, che tocca e ferisce solo per un attimo, per poi finire nel dimenticatoio di coscienze assopite, addestrate al dolore – sempre quello degli “altri”. La raffinatezza del lavoro del Teatro delle Albe sta nel dismettere i panni del narratore onnisciente, preferendo abitare quei luoghi, dai barconi agli spettri del Generale, senza emettere sentenze, senza ergersi a giudici della complessità umana e, proprio per questo, dando vita a un’opera estremamente politttttttica.

Quando, alla fine dello spettacolo, ci si ricorda di avere ancora in tasca quel foglietto dato a ogni spettatore all’ingresso con un numero “da ricordarsi”, lo si guarda con altri occhi, ritrovandosi in quell’elenco di “non identificati” persi laggiù, da qualche parte, sul fondo del mare.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro della Contraddizione
Via Privata della Braida 6 – Milano
10 e 11 ottobre, ore 20.45

Teatro delle Albe presenta
Rumore di acque
di Marco Martinelli
ideazione Marco Martinelli, Ermanna Montanari
regia Marco Martinelli
con Alessandro Renda
spazio e costume Ermanna Montanari
luci Enrico Isola
musiche originali Guy Klucevsek
tecnico del suono Fabio Ceroni
produzione Teatro delle Albe-Ravenna Teatro