Ritratti d’autore

Al teatro India, per la rassegna Garofano Verde, è andato in scena Artemy di Simone Carella, con Angelo Di Genio, Francesco Martino, Emanuela Villagrossi. Una complessa lettura scenica – prodomo di uno spettacolo che verrà – per interrogare un tema di estrema attualità.

Come nasce Artemy?
Simone Carella: «Tutto ha avuto inizio da un’immagine che mi tornava in mente in modo ricorrente: due persone viaggiano su un treno, in mezzo alla neve, ed è come se il loro viaggio diventasse metafora della vita. Un viaggio interiore, insomma. Come se salire su quel treno significasse riscriverla, in qualche modo. Dunque la prima idea è stata quella di ambientare il testo unicamente sulla carrozza di un treno, in cui a ogni stazione riaffiorasse un momento significativo nella vita dei protagonisti. Fino all’arrivo, l’ultima stazione, che avrebbe dovuto coincidere con la fine della loro storia di esseri umani. Col tempo, poi, i personaggi hanno assunto il carattere e i tratti di Anton e Artemy, con il loro carico di complessità e di delicatezza che porterà i loro destini a dividersi, pur restando in qualche modo uniti per sempre».

Annunciato come «prima lettura scenica del fortunato testo di Simone Carella», la messinscena di Artemy in realtà si presenta ibrida di quegli elementi che caratterizzano un allestimento finito (scenografia, musiche, cambi di scena, dinamiche interpretative, complessità registica). Una scelta interessante dal punto di vista formale, ma rischiosa nel corroborare potenziale confusione. Ci spiegate come e perché ci siete arrivati?
Tommaso Rossi: «All’interno del Garofano Verde abbiamo presentato una fase intermedia tra il testo e la scena. Per me è molto affascinante questo momento di apertura: abbiamo avuto la fortuna di poter stare in ascolto di possibilità che ancora non dovevamo per forza accogliere o scartare. Abbiamo colto questa occasione come un laboratorio, un momento per confrontarci e condividere visioni sul testo e metterle alla prova. Quello che abbiamo presentato è stato uno studio, nel senso di un momento di creatività non definitivamente formalizzata, ma in fieri: questo forse può generare confusione, ma credo sia stato anche un gesto di grande generosità da parte della compagnia».

Avete dichiarato che «mettere in scena Artemy, a un anno dell’approvazione della legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso in Italia, non significa additare la Russia e dichiarare che noi siamo superiori a loro perché abbiamo alcuni diritti. Vuol dire piuttosto riflettere su quella forza negativa che è l’omofobia, un fenomeno che riguarda anche l’Italia e l’occidente». Non temete che la scelta di utilizzare la Russia quale specchio dell’Occidente possa essere percepita come una discutibile forzatura e depotenziare il messaggio dello spettacolo?
T.R.: «Non voglio parlare di Occidente attraverso la Russia. Quello che intendo nelle note è che l’omofobia è un fenomeno che non riguarda solo la Russia e che – oggi che noi da poco abbiamo certi diritti – non dobbiamo fare l’errore di sentirci liberati dall’intolleranza verso le minoranze sessuali. Non credo che la presa di coscienza di quanto il bullismo omofobico sia radicato anche nel nostro Paese possa “depotenziare il messaggio dello spettacolo”».

La ricerca della catarsi, la retorica del finale, il didascalico accompagnamento musicale: sono aspetti relativi alla temporaneità della messa in scena o ne rappresentano consapevolmente la cifra drammaturgica?
T.R.: «Abbiamo cercato di dare di più rispetto ad un semplice reading, di metterci maggiormente in gioco. Credo che il fatto di inserire quei pochi elementi di allestimento sia dovuto alla necessità di esplorare le dinamiche di un testo mai rappresentato, un’occasione che abbiamo sfruttato appieno e in cui gli attori hanno dimostrato coraggio».

Abbiamo iniziato chiedendovi come nasce Artemy, chiudiamo domandandovi dove questo spettacolo voglia arrivare. Avete già previsto una sua distribuzione?
T.R.: «Speriamo di riuscire ad avere una produzione prima. Personalmente mi piacerebbe molto cercare di tradurre, con l’aiuto di uno scenografo, la scansione temporale del testo per rendere visivamente la distanza tra il piano del presente, quello della memoria, quello dell’elaborazione fantastica o dei desideri. E poi certo, subito in tournée!».

Artemy
di Simone Carella
con Angelo Di Genio, Francesco Martino, Emanuela Villagrossi
musiche originali Attila Faravelli
lettura scenica a cura di Tommaso Rossi