Madeleine per dimenticare

Una casa bifamiliare a Vercelli, dieci sconosciuti a tavola, una Compagnia australiana e la scoperta dell’insostenibile pesantezza dell’essere.

Dove inizia e dove finisce il teatro? Cosa significa re-citare? Qual è il confine tra realtà e finzione? Può l’attore rac-contare la propria vicenda personale o deve solamente prestare il proprio corpo e la propria voce alle storie immaginate dall’Autore – con la A maiuscola? Quale il ruolo dello spettatore: passivo al di là della quarta parete o attivamente chiamato a specchiare il proprio nel vissuto dell’altro? Padronanza del testo o sudditanza alle emozioni? E fino a che punto permettere la partecipazione del pubblico senza rischiare di trasformare uno spettacolo in una seduta psicanalitica?
Quante domande si affastellano nella mente dei pochi – non più di dieci persone a sera – che possono partecipare – nel senso più autentico del termine – allo spettacolo di Cuocolo-Bosetti, The Secret Room, in questi giorni a Vercelli. Impossibile e infelice sarebbe descrivere la perfomance di Roberta Bosetti perché toglierebbe allo spettatore il gusto di sperimentarla. E allora che fare? Come riempire una recensione di contenuti senza svelare che “l’assassino è il maggiordomo”?
Facciamo un passo indietro e, senza alcuna ambizione di raccontare il vissuto, vi invitiamo a seguirci in questa esperienza – agita da noi e da altri, solo ieri sera, in una casa come tante, in una cittadina di provincia come Vercelli.
Dieci (ieri, per l’esattezza, undici) persone, più o meno estranee fra loro (quasi esclusivamente coppie, alcuni si conoscono di vista) arrivano alla spicciolata in via Ariosto 85. Casetta a due piani, forse anni 50, niente di speciale. Si suona il citofono, si sorride un po’ imbarazzati, sconcertati di fronte all’ignoto, incuriositi per uno spettacolo che promette di essere altro: convito forse (si cenerà insieme intorno a un fratino di legno), teatro d’improvvisazione, magari (ma il testo è scritto, le sue tappe rivelate una a una. Nemmeno per un momento Roberta Bosetti mente allo spettatore: reciterà sì, ma se stessa), performance di tendenza spera qualcun altro (la Compagnia Cuocolo-Bosetti non ha lavorato per anni a Melbourne, dirigendo l’IRAA Theatre? Mietendo successi in Australia e in giro per il mondo?).
Ci si stringe la mano un po’ perplessi, come a un party al quale ci si chieda perché mai si sia deciso di partecipare. Uscire con questo freddo sfidando la nebbia piemontese per ritrovarsi in una specie di taverna con i muri imbiancati a calce e solo dieci piatti: l’undicesimo arriverà subito ma gli astanti si guardano perplessi (“Farà parte dello spettacolo?”, “L’undicesimo piccolo indiano è l’assassino?”). Ci si scambia il nome, qualche dato anagrafico senza importanza, giusto per rompere il ghiaccio. Poi la bottiglia di vino passa di mano in mano e la convivialità che ci è tipica, dal Manzanar al Reno (o dall’Alpi alle Piramidi?), prende il sopravvento, si chiacchiera, Roberta (ci si dà del tu) re-cita una preghiera che è un invito iniziatico a seguirla, a stare al gioco – se di questo si tratta – a com-partecipare allo spettacolo – se così si può definire.
Le tappe dello stesso sono scandite con precisione: a ogni mansione – i luoghi deputati del teatro medievale – Roberta re-cita poche righe si questa sua autobiografia – rielaborata drammaturgicamente. I convitati mangiano e, se interpellati, rispondono regalando un pezzo di sé. Qualcuno tende a restare sul generico – non fidandosi, incerto forse del proprio ruolo: spettatore o complice, vittima o celebrante?
Poi, d’un tratto, il passo cambia: si sale una scala, si entra in una stanza da letto. La scenografia non esiste: questa è la camera di Roberta ragazza. Le sue foto in bianco e nero un po’ sgualcite, i diari (dai quali è tratto lo spettacolo?), i quaderni delle elementari, l’abito della prima comunione perfettamente conservato, con borsetta e cuffia riposte in una scatola argentata. Il passato ritorna con quell’odore tipico di muffa misto a lacrime salate, carta fotografica ingrassata dalle dita che hanno guardato per un attimo e presto dimenticato, forme sbiadite che riescono a ferirci sebbene fantasmi di un immaginario privato e insieme comune – a tante, a troppe donne.
Roberta è Bosetti: attrice che re-cita guardando nello specchio se stessa e noi, altrettanti riflessi che, per una sera, siamo chiamati a testimoniare: in parte imbarazzati, a tratti colpiti, qualcuno incredulo, altri scettici di fronte alla sofferenza – perché è sempre più facile credere a quella di un bambino straziato dalla bomba giocattolo che gli abbiamo regalato noi – inconsapevoli carnefici di un Occidente che non sa più cosa sia la guerra – piuttosto che quella silenziosa della figlia della vicina, della compagna di scuola, dell’amica che sorride alzando le spalle.
Poi tutto finisce. Maldestramente com’era cominciata, la serata si chiude: ci si affretta a ritirare i cappotti, si saluta impacciati. Si potrà chiedere qualcosa a Roberta? Sarà vero quanto ci ha raccontato? Ma a teatro si applaude o si fischia, non si domanda. C’è chi vorrebbe conoscere il regista – ma lui è dietro le quinte, o forse sarebbe meglio scrivere in cucina, o chissà: al bar con gli amici. Chi può saperlo?
E ci si ritrova in strada: ci si guarda l’un l’altro e, invece di scappare ognuno a casa propria, d’un tratto scatta un meccanismo che fa di un’esibizione, teatro. Gli spettatori-ospiti si guardano in faccia ed è evidente il bisogno di tutti e di ognuno di confrontarsi, davanti a un Irish coffee, una cioccolata con panna, un bicchiere di cognac o una birra gelata: «Parliamone», «Tu che ne pensi?», «Ma è una storia vera?», «Non può essere: mica si può esporre il proprio dolore privato in pubblico!», «Tutta finzione! Si sentiva che stava recitando…», le donne in particolare faticano a capacitarsi: «Se una vivesse una cosa simile, non te lo racconterebbe mai!» e «Ho capito subito che stava mentendo. Non mi ha preso per il naso nemmeno per un attimo». Ma c’è anche chi è talmente commosso da non riuscire a parlare, chi non riesce a capacitarsi del perché alcuni rifiutino di credere a ciò che si è visto.
E d’un tratto ci accorgiamo che è bello ritrovarsi lì, seduti a quei tavolini, e viene in mente, senza soluzione di continuità, Carmelo Bene e il paragone, rileggendo alcune tra le sue elucubrazioni più riuscite, sconvolge: “Il pubblico non va a teatro perché cerca la propria crisi. Non si presterebbe mai a una perversione virtuale. A un gioco di specchi con la scena. Sarebbe catastrofico. L’indomani non andrebbe più a lavorare. Mezz’ora dopo si suiciderebbe. Un teatro che non fa morti, che non sollecita crimini, delitti, sabotaggi, non può essere teatro, è spettacolo. Piccola fiera della vanità”.

Lo spettacolo continua:
Casa Cuocolo/Bosetti
via Alfieri, 85 – Vercelli
almeno fino a sabato 3 dicembre
The Secret Room
regia Renato Cuocolo
con Roberta Bosetti
Consigli di lettura (per saperne di più, dopo aver visto lo spettacolo):
Cuocolo – Bosetti
The secret Room
Le Ariette – Libri
Teatro delle Ariette, 2006
Carmelo Bene, Giancarlo Dotto
Vita di Carmelo Bene
1998/2010 RCS Libri S.p.A., Milano
IV edizione, Tascabili Bompiani, settembre 2010