Narrazioni occidentali

Il racconto nelle declinazioni della storia e della fiaba è andato in scena all’Ar.Ma Teatro, all’interno del D.O.I.T Festival.

Dalla costruzione drammaturgica di un percorso che attraversa amore e guerra alla prevedibilità di un intreccio montato su anticipazioni e interruzioni, Ti si moj Zivot di Fenice dei Rifiuti condivide molte suggestioni già riscontrate nel Sacrificio del fieno, spettacolo presentato dalla compagnia lombarda nella seconda edizione del D.O.I.T.

Alessandro Veronese ci porta nelle Guerre Balcaniche. Siamo nel periodo tra il 1991 e il 2001, quando la Repubblica Socialista di Jugoslavia, orfana del maresciallo Tito da ormai undici anni, sparì dalla cartina geopolitica dell’Europa dilaniata dagli intestini nazionalismi, i cui secolari mores erano rimasti latenti, ma mai del tutto scomparsi sotto la forzata repressione dello stato centrale.

Ti si moj Zivot sviluppa fondamentalmente un duplice tracciato espositivo, l’uno nazionalpopolare (la cultura sportiva), l’altro relativo alla reminiscenza del sangue versato in un conflitto che proprio in Bosnia ed Erzegovina vide l’esordio planetario di un nuovo modello di stupro e genocidio come arma di guerra.

Il primo, sublimato in una scenografia di cinque palloni da calcio, una miniporta per allenamento ed erba sintetica distesa sul palco, trova rappresentazione in un ingombrante riferimento alle Olimpiadi Invernali di Sarajevo del 1984 e al Mondiale di Italia ’90 che, utilizzato da Veronese per contestualizzare le coordinate geografiche e ideali dello spettacolo, a dispetto della sua ingiustificata sovraesposizione scenica risulta comunque debole nel definire l’eliminazione calcistica della Jugoslavia per mano dell’Argentina di Maradona quale ultima occasione in cui il popolo jugoslavo poté sentirsi unito sotto un’unica bandiera.

Più suggestive, invece, le allusioni del secondo, dallo straziante diario Mimmy di Zlata Filipović (l’Anna Frank dei Balcani) al rogo della biblioteca nazionale Vijecnica in cui morì una giovane funzionaria e vennero bruciati oltre due milioni di libri (episodio cantato dai CSI in Cupe vampe), dalla sublime figura di Vedran Smailović (che, nel 1992, dunque in piena guerra, suonò l’Adagio in sol minore di Giazotto per ventidue giorni in onore di altrettanti civili uccisi) alla tragica passione tra la bosniaca musulmana Admira Ismić e il serbo ortodosso Boško Brkić – ricordata dal documentario Romeo and Juliet in Sarajevo del canadese John Zaritsky e, in particolare, dalla celeberrima foto di Mark H. Milstein che Veronese, con bella intuizione, riproduce plasticamente con oggetti e costumi già usati (sci, scarponi, ecc).

Tuttavia e purtroppo, al netto di una stucchevole impressione di déjà vu, di un incedere fin troppo scolastico secondo i dettami del teatro di parola e di alcune gravi sbavature culturali (come la semplicistica definizione del dionisiaco nella cultura greca quale sinonimo di morte e impulso alla distruzione), perplimono diverse soluzioni squisitamente teatrali e, nonostante non manchino poesia e momenti autenticamente patetici, la capacità di Ti si moj Zivot di promuovere empatia e provocare emozione sembra, infine, dipendere interamente dall’oggetto della propria narrazione, mostrando di soffrire l’equivoco di fondo che ne abita il concepimento, ossia l’idea che in quei territori «personaggi differenti [fossero] rimasti schiacciati […] senza davvero capire cosa stesse accadendo», quando, invece, i morti e la pulizia etnica in Bosnia-Erzegovina ebbero costante copertura mediatica mondiale e consapevolezza locale.

L’autore, regista e interprete Veronese mostra i limiti di una preparazione attorale bloccata nell’impostazione vocale e basica nella gestualità fisica, nonché traballante su diverse – quantomeno discutibili – scelte, come l’errata convinzione che l’enumerazione di nomi e luoghi slavi avulsi dall’argomento in questione o le numerose parentesi narrative costruite con puerile e stereotipato idealismo (su tutte, l’insostenibile incontro tra Admira Ismić e Boško Brkić) potesse potenziare e approfondire la percezione e la comprensione della tragedia inscenata.

Chiude questa edizione del Festival delle Drammaturgie Oltre Il Teatro, Tàlia si è addormentata, «lavoro […] incentrato su una delle versioni più antiche de La bella addormentata che ne Lo cunto de li cunti, da cui lo spettacolo è tratto, è intitolata Sole, Luna e Tàlia».

L’operazione è, dunque, quella di giocare con la distanza dal common sense e, ricostruendo un patrimonio culturale tradizionale tutt’altro che consolatorio, di decostruire il soggetto che, di tale cultura, fa esperienza. Tàlia si è addormentata si presenta, allora, nelle vesti di «un meccanismo da giostra, un espediente teatrale che cela il compito più profondo della fiaba e del teatro ovvero di essere uno specchio per chi legge, ascolta, guarda», di mostrare all’Io le forze e le relazioni nascoste cui sarebbe ostaggio (gli archetipi dell’inconscio), magari al fine di liberarlo.

L’ambizione è nobile, la scenotecnica di suggestiva artigianalità, i costumi poveri complessivamente riusciti, la chiusura metateatrale – con cui i personaggi rilevano al pubblico la trama appena trascorsa – un evitabile e ridondante tecnicismo, l’interpretazione faticosa nel modulare le diverse atmosfere fiabesche attraverso lo strumento della voce e la prossemica, malgrado Cinzia Antifona, Valentina Greco e Francesca Pica mostrino grande dedizione ai numerosi personaggi (principessa e Figlie del Tempo, re e regina) e concentrazione nel recitato.

La scena è dominata da una struttura in legno, una sorta di torre che scandisce il tempo e diventa castello, clessidra e altri ambienti richiamati durante la narrazione. Francesco Petti adegua la canonica traduzione di Michele Rak, assecondando l’originario gusto barocco di Basile per l’eccesso e la sovrabbondanza lessicale, ma ne tradisce il senso, non accordando il privilegio alla valenza evocativa del fonema su quella semantica della parola. Se, dal punto di vista testuale, il tentativo di assestamento e semplificazione risulta incerto nel collocarsi tra la ricerca della comprensione e il mantenimento della primigenia e fondamentale eleganza, l’operazione, nel suo complesso, appare generosa e, allo stesso tempo, estremamente ingenua nel pensare di poter affrontare con radicalità le proprie tematiche (mettere in crisi una narrazione secolare intrisa – per esempio – di maschilismo e autoritarismo) semplicemente recuperando l’aspetto descrittivo di forme letterarie arcaiche, oggi – nella vulgata editio – effettivamente edulcorate dalle trasposizioni mediatiche, ma, se interpretate alla luce della voracità consumistica della popular culture, altrettanto pericolose nel piegare l’essere umano ad astratti e moralistici ideali.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno del Festival D.O.I.T Drammaturgie Oltre Il Teatro
Ar.Ma Teatro

10-11 aprile, ore 20:45
Ti si moj Zivot
Tu sei la mia vita
drammaturgia e regia Alessandro Veronese
con Alessandro Veronese
produzione Fenice dei Rifiuti

12-13 aprile, ore 20:45
Tàlia si è addormentata
regia Francesco Petti
con Cinzia Antifona, Valentina Greco, Francesca Pica
musiche Francesco Petti
scene e costumi Domenico Latronico
produzione PolisPapin e Ygramul Teatro