Il grande assente

delloscompiglioCecilia Bertoni e Pablo Rubio. Tempo, mente e solitudine alla Tenuta dello Scompiglio. E il piccolo borgo di Vorno si apre alla multidisciplinarità dell’arte.

E poi fermarsi, alla fine. Riconsiderare. Perché non renderlo possibile? Se lo fosse, certo, avrebbe del prodigioso. Tutto il dolore, tutta la perdita e la vittoria, tutte le stratificazioni delle possibili solitudini. Chi non interromperebbe la corsa se ne avesse opportunità? Di più. Emergere per un lasso di tempo dallo scorrere lineare della vita. Emergere, un movimento verticale, perpendicolare. E guardare il tempo, guardarlo con occhio lucido, con occhio cinico. L’occhio di un dio, l’occhio di un misero. L’occhio di chi è fuori dal torrente.
Qualcosa di molto simile a questo è accaduto a Vorno (un paesino sopra Lucca), nella Tenuta dello Scompiglio, a partire dal 18 maggio – e continuerà fino ai primi di giugno.
La Tenuta dello Scompiglio è un’ampia area multifunzionale immersa tra colline di ulivi e vigne, un piccolo paradiso dal carattere quasi ascetico consacratosi interamente all’agricoltura e alla cultura artistica. È in questo spazio apparentemente rustico e semplice che si materializzano scenari dal carattere perturbante e violento. Ed è qui che comincia la Trilogia dell’Assenza, un complesso sistema in tre atti, come nel teatro, sotto l’idea e la direzione di Cecilia Bertoni. L’artista – una mente visionaria e cruda – non ha esitato a partecipare a sua volta alle performance della giornata incastrando le date del suo ampio progetto con quelle della mostra artistica dello spagnolo Pablo Rubio, Estados indefinitos para una existencia.
Ore 14.30. La prima mezz’ora è dedicata a lui. Ci fanno varcare una tenda, la richiudono alle nostre spalle. Penombra. Rubio ha concepito una camera interiore: uno spazio immenso e abbandonato, umido, profondo, bombardato. Pagine sul pavimento, ammonticchiate tra loro, sotto piccole lampade. La luce crea isole nell’oscurità, punti sporadici di comprensione. Dove non c’è luce le pagine muoiono. Un abisso si frappone tra i frammenti di luce. È in questo ambiente amabile e al contempo inospitale, dove tutto è legato strettamente da spaghi neri, che l’uomo cerca e trova profonde analogie. E il colpo di grazia si ha quando si torna indietro, verso lo specchio, per capire: tutto questo è dentro di noi, dentro di noi.
Ore 15.45, primo atto della Trilogia: Tesorino, perché hai perso? Sono in due, un uomo e una donna. Pattinatori. Non sono più giovanissimi. Alle spalle hanno la gloria, davanti l’ennesima prova, la gara. Ma è passato tanto tempo, così tanto dall’ultima volta. Devono vincere. L’atto, circa un’ora di performance, focalizza l’obiettivo in uno pseudocamerino di prova. I due, Serge Cartellier e la stessa Bertoni, sanno di dover vincere. E il loro desiderio prende corpo, ingigantisce, si colora. È necessità. E poi dovere. E infine incubo. Si preparano senza parlarsi, senza guardarsi. Nel sottofondo voci registrate, maschile e femminile, forse le stesse dei pattinatori, ci raccontano aneddoti d’infanzia, traumi. La donna è forse la stessa persona, l’unica che nel giorno della comunione portava un abito vergognoso; l’uomo è forse lo stesso che fugge – nell’audio – dal padre, che vuole riprenderlo con indosso una sottana. Il camerino si dilata e si restringe con la convulsione di un cuore. L’attesa, scandita da voci radiofoniche che annunciano i minuti mancanti all’esibizione, si avvelena di disperazione. Lei si trucca, lui si fabbrica un ridicolo cappello col nastro adesivo, si specchia, piange. Una coppa transita tra le loro mani, coppa da cui bevono, su cui piangono, che lasciano precipitare. Una coppa che li segue ovunque, anche nella quotidianità (la scena simbolica in cui i due mangiano pere, seduti al tavolo con la coppa tra loro). Accompagnati dalle voci di Radio Gogo, l’uomo e la donna sono in balia del vincere e del perdere. Su di essi si basa la stima che hanno per se stessi e per l’altro. E l’attesa, sempre più surreale, trascorre tra insulti e arrampicate, in una perenne e ossessiva ambizione verso la verticalità. Salire è lo scopo di entrambi. Persino in vetta non sono soddisfatti e scendono, in assenza di scelta. Il fatto che non siano pronti è palese: forse perderanno. È un’ironia depressa quella che si presenta di fronte ai nostri occhi, un sarcasmo leopardiano e abbruttente che porta i performer alla morte interiore (tra le scene, anche il funerale simbolico della donna). Poi, il conto alla rovescia. Buio. I due cadono, si rialzano. E lentamente, come morti, vanno verso la competizione. Devono, devono vincere.
Ore 17.20. Secondo atto: Riflessi in bianco e nero. Gli interpreti ci accompagnano fuori, tra i boschi. Camminiamo a lungo su sentieri scoscesi, nel fango. La prima tappa è in cima alla vetta, sull’Uccelliera. Si intitola Attesa. C’è una tavola imbandita di fragole e bevande. Qualche spettatore mangia, talaltro beve. Appesi a un ramo penzolano dei pattini da ghiaccio; sotto c’è uno specchio – forse a simulare il ghiaccio. Accanto, su una sedia, due dizionari aperti sul termine “attesa”. Una voce registrata ripete l’ora a ogni minuto. Qualcuno dovrebbe arrivare, ma non arriverà. E il suono del pattino che graffia il ghiaccio rievoca il dolore delle attese inutili, delle ore scialacquate. Attendiamo per dieci minuti, senza parlare. Mentre una voce registrata ci invita a seguire la guida, ci avverte di non pattinare finché la superficie del ghiaccio non si sarà rimarginata. Seconda tappa: Perdita. Siamo ai piedi di una ripida discesa. La registrazione riprende dal dizionario la definizione di “perdita”. Due buche nel terreno e, in alto, sei sedie sparpagliate lungo i valloni. Tre uomini siedono su altrettante sedie, maneggiando dei libri. Sulle altre tre riposano camicie, scarpe e recipienti pieni di ghiaccio e liquido rosso. Nelle buche due donne, una vestita di nero, l’altra di bianco. La nera, soggetta al tempo, scava la propria buca come una fossa; la bianca, avversa al tempo, si ammazza di fatica nel tentare di richiudere la propria. Ninne nanne, ricette di cucina, declinazioni di verbi al presente, al passato, al futuro. Un uomo strappa le pagine, se le strofina in faccia, le divora; un’altro le consuma lentamente; un ultimo finisce il proprio libro e rotola via lasciando la sedia vuota. E infine, anche noi ce ne andiamo. Terza tappa: Il cimitero della memoria. La vallata, molto ripida, è costellata di opere d’arte moderna. Gli altoparlanti definiscono “memoria”. Ci dicono di fare ciò che vogliamo. È un attimo. I performer si sparpagliano nella valle, gettandosi sugli oggetti. La donna in bianco, con i pattini ai piedi, volteggia su una piattaforma pallida (emblema della memoria, secondo un’intervista all’artista, che la visualizza come una distesa immacolata). Altri si rotolano sulla “memoria”, ognuno coprendo le tracce precedenti con le proprie. La distesa resta bianca. Un folle grida di seguire la guida, poi scompare in una fossa continuando a gridare. Ultima tappa: Il funerale del tempo. Il susseguirsi degli eventi si lega con il flusso delle acque. Anche per questo il “funerale” si svolge ai piedi di uno stagno. Una vedova siede su un masso, una sposa è sospesa sulle nostre teste. Altri sono in piedi, o distesi tra le radici di un albero. Lentamente la scena si svuota. Le persone, forse il tempo oggettivo, se ne vanno una dopo l’altra. La sposa cala verso l’acqua, la vedova rovescia un bacile di ghiaccio e fluidi rossi: ma chi sono costoro? Forse la stessa donna? È la vedova che rimembra il passato o è la sposa a presagire il futuro? E dov’è questo tempo di cui tanto si parla e che si compiange? Cos’è? Una voce risponde dagli altoparlanti: «È l’essere umano. Perché gli altri esseri non lo temono».
Il tempo. Lo abbiamo visto nel camerino, tra i due pattinatori. E qui. Il tempo, la linea sottile tra vittoria e sconfitta.
Torniamo alla Tenuta.
Ore 20.20, ultimo atto. Si intitola Kind of blue – come l’album di Miles Davis del ’59. Lo spazio, se possibile, si fa ancora più claustrofobico. Siamo su un’impalcatura al di sopra di una stanza. Un uomo dorme sotto una torretta, completamente nudo. Sulle pareti scorrono video, corpi spezzettati che si muovono a mezz’aria. Sono i corpi dei performer. Kind of blue – un tipo di azzurro, un mood; il blues è anche un genere musicale. Parola dai molteplici significati. Quel “tipo di malinconia”. Perché di questo parla la performance, di una particolare sfumatura di tristezza: quella del superuomo. Una voce registrata cita alcuni passi di Nietzsche, i più gloriosi, che menzionano la solitudine di un forte tra i deboli, Zarathustra. L’uomo si veste, è un astronauta. Completamente solo su un pianeta a parte, volontariamente avulso dalla realtà umana. Con l’andare del tempo la sua forza si sgretola, la solitudine lo attanaglia. E sul pavimento qualcuno proietta un video. Ancora i performer. Scene crude e impietose che catapultano a forza lo spettatore nella sfera privata degli attori. Abbondano le vasche da bagno, le cucine, i corpi nudi. Ogni personalità è esasperata e condensata in scenari surreali: c’è chi si ritrae sullo specchio, chi pulisce il bagno tingendosi di rosso e avvolgendosi nella plastica; c’è chi si lava vestito.
E poi una tavolata: tutti mangiano, anche l’astronauta. Lui è reale, non loro. La barriera del tempo e dello spazio si frappone tra l’uomo e i suoi amici lontani, semplici, terreni. I bicchieri si rovesciano, il blu allaga la tavola, la stanza, l’esistenza. L’uomo non si alzerà più. Si può essere Zarathustra. Ma la solitudine? Lui stesso, il superuomo, si ritrova a consolare il mare.
Il pubblico esce: è tutto finito.
La Trilogia dell’Assenza. Tempo, perdita, solitudine, vittoria. Ma chi è il vero assente in questa epopea del delirio? Cosa realmente offre, cosa sottrae? Gli eventi, le percentuali, le potenzialità? L’uomo, forse. È l’uomo il grande assente della vita.
Tenuta dello Scompiglio, ore 22.00. Per comprendere l’assenza talvolta è necessaria un’assenza maggiore. E poi fermarsi, alla fine. Riconsiderare. Sì. Per ripartire.

 

La performance continua:
Associazione Culturale Dello Scompiglio
Vorno (Lucca)
fino a domenica 2 giugno

Trilogia dell’Assenza
da un progetto di Cecilia Bertoni

Tesorino, perché hai perso?
una composizione di Cecilia Bertoni, Carl G. Beukman, Serge Cartellier, Claire Guerrier e Saskia Mees
regia Claire Guerrier
con Cecilia Bertoni e Serge Cartellier
suono e musica Carl G. Beukman
luci Pierre Montessuit
scene e costumi Cecilia Bertoni e Claire Guerrier
video Claire Guerrier
audio e luci Luca Telleschi e Paolo Morelli

Riflessi in bianco e nero
idea, regia e scene Cecilia Bertoni
suoni e musica Carl G. Beukman
con Marialucia Carones, Serena Gatti, Marco di Campli Sani Vito, Piero Leccese, Tazio Torrini e Alessio, Andrea, Deniel, Derox, Fausto, Federico, Francesco e Paolo
mostra collettiva (le opere nel “cimitero della memoria”): Clara Conci, Davide Orlandi Dormino, Silvia Giambrone, Pablo Rubio, Chiara Scarfò, Gian Maria Tosatti, Enrico Vezzi e Claudia Zicari a cura di Angel Moya Garcia con Cecilia Bertoni
assistente alla regia Vincenzo Suriano
allestimento mostra Cipriano Menchini
audio e tecnica Luca Telleschi e Paolo Morelli
tree climber Paolo Carrara
testi Cecilia Bertoni, Marialucia Carones e Serena Gatti.
citazioni da Haruki Murakami e Friedrich Nietzsche

Kind of blue
idea, regia e scene Cecilia Bertoni
musiche, suoni e rumori Carl G. Beukman
aiuto regia Alice Mollica
astronauta Mauro Carulli
nei film Cecilia Bertoni, Carl G. Beukman, Marco di Campli San Vito, Marialucia Carones, Serena Gatti, Claire Guerrier, Piero Leccese, Mees, Luigi Petrolini e Andrea, Cipriano, Deniel, Derox, Fausto, Francesco, Paolo G., Paolo C., Didi & Gogo
testi Cecilia Bertoni, Mauro Carulli e i performer, Friedrich Nietzsche
costume Rosanna Monti
tecnica Paolo Morelli e BAM
costruzione scene Cipriano Menchini e Paolo Morelli

Film in cucina e nei bagni
riprese Mauro Carulli
montaggio Mauro Carulli e Cecilia Bertoni

Film in green screen
riprese, montaggio e tecnica BAM e Paolo Morelli

Estados para una existencia
mostra personale di Pablo Rubio
a cura di Antonio Arévalo
fino a domenica 28 luglio