Narrazione di una malattia per voce solitaria

Francesca Zanni, autrice di Tutti i miei cari, mette in scena la confessione in forma di biografia della poetessa Anne Sexton, vincitrice del premio Pulitzer per la poesia nel 1967.

Crescenza Guarnieri interpreta la voce-corpo di una donna malata. Questa donna è anche scrittrice. La scrittura può salvare? «Il mio corpo è una scatola – esclama Anne – e dentro c’è un’altra, siamo in due». Sembra ci sia una parte di sé “fuori” che cerca di seguire un flusso (essere moglie, avere casa, figli, amanti) e una parte “dentro”, in cerca di una autenticità che – mortificata – trova nella scrittura un modo di tessere una trama tra il dentro e il fuori, in cui le parole cercano di ricucire una ferita, quella di non essere stati amati.

Comunemente si pensa che l’amore possa guarire, ma – si chiede Anne – è così? «L’amore è un’onda che ti abbatte, credevo di essere stata colpita, invece era solo un bluff». A ventotto anni, Anne ha due figlie, un marito, una famiglia. L’attesa di un amore salvifico sembra finita, ma quella pace non arriva. Prova a gettarsi nel fare domestico, ma quando finiscono le cose da fare, ritorna la compagnia con quella “dentro”, che né figli, né marito possono placare. Quella dentro scrive, fa girare le rotelle del pensiero «fino a far inceppare gli ingranaggi». «Il sintomo nevrotico ha ragione. La malattia non vuole essere guarita ma decifrata», scriveva Giorgio Manganelli. La malattia, anzi, può solo essere decifrata, trovando proprio in questo decifrare ed essere decifrata sollievo, almeno fino a quando è possibile insistere sul suo bluff.

La scrittura non può trovare alcun senso, può solo blandamente suturare la ferita dell’essere; ma quando questa si riapre, cosa si può diventare per non soffrire? Madre snaturata, cagna, pazza, donna che fa sentire gli uomini sessualmente potenti, trovando in questo un narcotico che stordisce, ma che non placa la domanda d’amore insistente e infinita. Anne intuisce che le parole hanno una strana magia: spesso sono miracolose, ma una volta rotte, non sono più riparabili. Trova nella poesia ragione di dirsi parole da sé stessa, mancando la fiducia che sia l’altro a dirgliele, con l’amore dovuto.

La messa in scena fa pensare a una sorta di varietà grottesco, in cui l’abile interprete gioca a rendere “bipolare” il ritmo, che sempre oscilla tra una depressa coscienza di sé, e una femminile ricerca di seduttivo rispecchiamento. La forma monologante è un discorso che non ha l’altro come polo dialettico, ma un solo interminabile soliloquio, dove la scena domestica si alterna al teatro di sé (la lettura delle sue poesie, sotto la luce di un riflettore). Finché si può far teatro poetico della propria vita si può avere un pubblico che fa da testimone, benché non offra di che accendere una sigaretta, o di pagare un altro drink. Fuori dal teatro, nella realtà, per Anne c’è la morte. Quella di dentro è il teatro, la poesia; quella di fuori è lasciata sola a sbrogliarsela con i morsi della realtà.

Il limite della forma monologo è forse quello di dare voce solo alla donna di “dentro”. Anne che alleva i suoi figli, che cerca di dissimularsi ai richiami infantililizzanti di sua madre, che non riesce ad amare nessuno, questa Anne (quella di fuori) non c’è, non ne vediamo la carne ferita, ma solo il trattamento retorico – sublime e dolente – della poetessa. Gli autori tuttavia mettono in scena quello che di fatto è un sofferto omaggio a una grande scrittrice, in grado come poche di fondere insieme corpo e parola, senza fermarsi al fondo di tutto, lì dove è possibile toccare il niente, la morte, che amore non ha, che parola più non ha.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro dell’Orologio

Via dei Filippini 17/A, Roma
dal 18 al 20 novembre 2016
venerdì e sabato ore 21.30 – domenica ore 18.30

Tutti i miei cari
di Francesca Zanni
con Crescenza Guarnieri
regia Francesco Zecca
costumi Grazia Materia
scene Gianluca Amodio
disegno luci Claudio Cianfoni
produzione Associazione Culturale Compagnia Stabile del Molise