Drammi storici e familiari

teatro-orologio-romaLiberamente tratto da Affabulazione di Pasolini, va in scena Tutti i Padri vogliono far morire i propri figli. Onirismi intrisi di realtà al Teatro dell’Orologio.

Pasolini discusse molto sull’annata del sessantotto, sui moti, le proteste, sulla generazione, quella dei sessantottini, che nacque. Si soffermò soprattutto ad analizzarne il fenomeno nascente, le sue contraddizioni, l’imborghesimento facile di un movimento che professava tutt’altro. I figli del maggio, delle piazze e strade urlanti, sono stati oggetto discussione e lo sono ancora. Le sane parole di dissenso e protesta verso una società malata sono spesso state sinonimo di vuota retorica. L’ambiguità del sessantotto e di ciò che poi ha determinato, non può non riconoscere l’aspetto negativo – così come la portata di cambiamento, di propositivo stimolo – che quell’annata produsse. Da quegli anni in poi è come se l’energia si fosse andata spegnendo. Molti altri movimenti e forti spunti di lotta sono emersi negli anni, ma disgregati, insomma l’esperienza che si estese su scala mondiale non si è più ripetuta. Cosa rimase però del movimento, cosa rimase se non un sempre decantato ideale? Consapevolezza certo, ma anche vuoti e poco slancio. Come se tutte le energie si fossero esaurite in un’epoca sola. Al fianco di chi lottava veramente vi era una larga fetta di chi giocava alla rivolta, e le rivolte, da quelle eclatanti alle rivoluzioni quotidiane, per quanto possano essere associate a un’immagine di caos sono anche frutto di organizzazione, di sana complicità tenuta assieme da un qualche forte ideale.

Questo e altro ancora viene messo sulla scena: il frutto di una rivolta sterile assieme a un procedere psicoanalitico nella storia di una famiglia contemporanea. Partendo infatti da Affabulazione, che inscena l’espressione del teatro greco di Pasolini, si supera la trama e viene affrontata la storia di un padre, che torna a casa dopo una lunga assenza. Da qui l’intreccio, che solo alla fine si rivelerà come un dramma piccolo borghese che si consuma nel sogno di uno dei protagonisti. Al suo ritorno il padre, che dice di essere malato, trova un figlio  che conosce appena, pieno di rancore e rimorsi, spento di ideali e totalmente disilluso. Vede nel padre quella figura di classe benestante, borghese e patriarcale che giocò alla rivoluzione, che campa di un’immagine vissuta e fascinosa, che usa come arma di ammaliamento la sua professione di fotografo che ha viaggiato e ha partecipato all’esperienza del sessantotto, ma che in realtà ha ben poca sostanza. Tutta questa mancanza, quest’assenza, ha creato una generazione apatica, che degli anni vissuti dai padri serba solo un rancoroso ricordo per vivere ora agli antipodi di quegli ideali, dimenticandone anche il lato positivo e realmente rivoluzionario. Una nuova generazione di figli, la cui nuova forma di contestazione è il boicottare ogni ideale con disprezzo.

«Distruggere consumare esaurire», con ansia di realismo si racconta come l’egoismo di alcuni padri abbia influito e rovinato i figli. Il padre cercherà di recuperare i rapporti con il figlio, ma il tutto si risolve in continui scontri in cui si sottolinea la psiche umana e i complessi nati dai rapporti conflittuali dei personaggi, la sindrome dell’abbandono, il senso di incattivimento che essa produce e che si risolve in un vero e proprio scontro generazionale. I risvolti psichici, le frustrazioni, le irritabilità che determinano, le delusioni, il senso di sopraffare e primeggiare e una numerosa serie di drammi personali vengono messi in luce. Il dramma si amplifica in perversioni, piccole manie che emergono e che lasciano presagire solo un finale nefasto. Prima un tentato suicidio del padre, poi quello del figlio. Il tutto si risolverà in una sequenza circolare. L’opera infatti si chiude così com’era iniziata, con un tono diverso. Tutto ciò che è stato rappresentato era il frutto onirico dello stesso padre sessantottino, quel padre che  dormendo avrà risvegliato nel suo inconscio un qualche senso di colpa o desiderio inespresso, un qualche rilascio delle emozioni. Un lavoro complesso dove la bravura degli attori e la stesura del testo primeggiano, viene qui ripreso il tema  del teatro greco della predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri, la base pasoliniana di Affabulazione, lo studio di una scenografia mobile che apre più spazi, le luci saggiamente alternate, gli attori ci fanno cogliere con un realismo enfatizzato da pose plastiche i cliché di classe. Un esperimento ben riuscito, una dialettica teatrale che si imprime e fa riflettere.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro dell’Orologio
via dei Filippini, 17
dal giorno 12 marzo al 3 aprile

Tutti i padri vogliono far morire i propri figli
drammaturgia Fabio Morgan e Leonardo Ferrari Carissimi
regia Leonardo Ferrari Carissimi
con Mauro Santopietro, Luca Mannocci, Irma Ciaramella, Chiara Mancuso, Anna Favella
scene e costumi Alessandra Muschella
disegno luci Antonio Scappatura
tecnico luci Martin Emanuel Palma
Produzione Progetto Goldstein, Teatro dell’Orologio