Ritratti d’Autore

Autore e regista teatrale, sceneggiatore pluripremiato, da oltre trent’anni anima di Arca Azzurra Teatro. Ugo Chiti si racconta. Dal «piacere della paura», all’affetto per Reality: «un film che ho amato moltissimo»; dal ricordo caustico del primo laboratorio con Arca Azzurra: «Feci una premessa: “Il laboratorio durerà circa tre mesi, e non aspettatevi il saggio finale. Primo, perché mi trasferisco e poi perché non saprei cosa fare… con voi», alle considerazioni amare sulla situazione teatrale di oggi: «Posso dare una risposta un po’ ferita, un po’ risentita. Perché è cambiato tutto. Io stesso non posso permettermi di fare gli spettacoli che vorrei, e di continuare la mia ricerca».

Iniziamo dall’esperienza con Arca Azzurra Teatro. Com’è nata?

Ugo Chiti: «Il rapporto con Arca Azzurra nasce casualmente. Non era previsto un così lungo futuro perché era un laboratorio teatrale, al quale partecipava un gruppo molto giovane composto da alcuni con esperienza e altri che non ne avevano nessuna. Tenendo il laboratorio, però, mi resi conto che si trascinava, senza sorprese, in maniera molto convenzionale, tranne per una certa volontà di recuperare una lingua toscana e le sue sonorità. Va premesso che questo laboratorio si teneva a Tavarnelle Val di Pesa, dove io sono nato e, per me, tornare a fare teatro o, almeno, a occuparmi di teatro in un luogo dal quale avevo preso le distanze, era quasi urticante – fastidioso. Vinta questa resistenza iniziale, presi ad accostarmi a una realtà non tanto di tema quanto di radice, di suono vocale. Notai così che tutto si attivava, tutto diventava più partecipato. Ricordo che feci una premessa: “Il laboratorio durerà circa tre mesi, e non aspettatevi il saggio finale. Primo, perché mi trasferisco e poi perché non saprei cosa fare…”. E non ricordo se aggiunsi: “con voi” – ma il tono era un po’ quello. Al contrario, questo tipo di lavoro interno, laboratoriale cominciò a diventare quasi un diversivo. Mi trattenevo il sabato, la domenica anche. E il lavoro divenne gioco, momento ludico. Mi accorsi che trasferendo quel tipo di esercizio nello spazio, nel paesaggio, ritrovavo il senso del gioco, dell’infanzia, ritrovavo la ritualità. Come, per esempio, portare il fuoco benedetto. Fino a 14 anni ho vissuto in campagna e nel periodo pasquale ero uso andare in chiesa, con un gruppo di ragazzini, dove il prete benediva la brace perché i ragazzini, poi, si disperdessero per la campagna, in gruppi di tre o quattro, a visitare le case. In ognuna, i contadini prelevavano un frammento di brace o di quello che ne restava e, in cambio, ricevevamo delle uova o altro. Questo viaggio aveva due tempi: il tempo fantastico dei ragazzini che si muovevano nei campi e nei boschi; e poi, un arrivare in un privato e un cogliere dei frammenti di vita – perché interrompevi un quotidiano. In qualche modo, queste voci lontane, vicine, presenti, ritornavano e costituivano una drammaturgia. È stato un po’ lungo il racconto, ma mi è servito per dire che trovai facile attivare un rapporto drammaturgico con Arca Azzurra Teatro».

In oltre trent’anni con la stessa Compagnia, come è riuscito a mantenere viva la necessità creativa di quei tempi?

U. C.: «Il successo del primo spettacolo, Volta la carta, che si è ripreso negli anni ovviamente con altri attori, ha precisato dei caratteri. In un secondo tempo, e per un certo periodo, ho lavorato sui caratteri individuati che, in qualche modo, si ricollegavano alla storia, al territorio. C’era un’idea – una drammaturgia sulla memoria ritrovata, la memoria raccontata, la memoria vissuta. E, in questo senso, la progettualità drammaturgica ha reso possibile un lavoro sul carattere individuato, il tema, che, in qualche modo, si è distribuito sui personaggi. Poi, ovviamente, avendo avuto delle occasioni importanti di attenzione critica, anche di interesse distributivo, è cambiata all’interno la struttura. Alcuni sono diventati veri attori, capaci poi di trasferirsi indifferentemente nei personaggi – e io ho iniziato la fase degli adattamenti. Di fronte a me avevo ormai degli interpreti, forti di un segno e di una lingua particolari, che mi permettevano di muovermi all’interno di una dimensione “filologica”, tra virgolette, di sonorità particolari. A quel punto non si è più posto il problema di come continuare ad avere un interesse drammaturgico».


Come autore teatrale, si caratterizza spesso per uno humour nero. Un genere ancora poco frequentato in Italia. Da dove le nasce questa vena?

U. C.: «Per quanto riguarda lo humour nero diciamo che possono esserci più prospettive, più linee di appartenenza, più genesi. Una, sicuramente, nel piacere della paura. In qualche modo il racconto di paura è iniziatico, soprattutto in campagna. O forse a me è capitato di avere un interesse per il racconto che trasmette un’attrazione – non dico morbosa – verso la paura. La gente di campagna è usa alle prove iniziatiche. C’è sempre un cimitero e il contatto con la morte è più diretto. O almeno lo era negli anni Cinquanta, quando io ero bambino. Poi c’era il piacere che provavo leggendo, già allora, Edgar Allan Poe. Mentre l’esorcismo alla paura è una sorta di sottrazione, attraverso una metabolizzazione di cui l’ironia è l’elemento più diretto e immediato. Aldilà di questo, c’è il piacere, tutto mio, per il fantastico. Era un modo di isolarsi, di cercare questo altro mondo nel mondo circostante. La campagna, e il mondo toscano di per sé, tendono a essere disincantati, ironicamente spiazzanti, riportano sempre alla realtà. Al contrario, io provavo un bisogno di fantastico, di visionario. Questi elementi sono poi confluiti in quanto c’è di “gotico”, molto tra virgolette, nella mia drammaturgia. Probabilmente queste idee, del riso e del pianto, si uniscono in un ibrido, come sono io – metà toscano, per parte di padre; e metà veneto, per parte di madre. E in Veneto, quando vi andavo in estate durante le vacanze, sentivo che si respirava un’altra cultura, più vicina al mondo femminile, fatto di zie, di un intersecarsi caotico di esistenze. In qualche modo, questa tessitura di teatro che era il ritrovarsi di parenti provenienti da regioni diverse è diventato una specie di sistema di pensiero. Il fantastico, la memoria che vorremmo, la memoria che abbiamo. Sono questi i territori che ho frequentato».


Lei dimostra grande attenzione per il narrare una storia, scavando nei suoi protagonisti. Emblematico, in questo senso, Reality. Come si differenzia il suo lavoro nel mondo cinematografico da quello teatrale?

U. C.: «La mia filmografia è abbastanza spiazzante, andando da Benvenuti e Nuti a Veronesi o Garrone. Registi e opere di segno anche diametralmente opposto. Questo perché come sceneggiatore mi metto completamente al “servizio”, tra virgolette, del regista. Nel senso che divento un fiancheggiatore attento. Mentre in teatro mi costruisco un mondo mio, le parti le recito prima io – anche perché provengo da un’esperienza di attore e ho bisogno di sentire la tridimensionalità della frase nello spazio; ogni interferenza mi irrita; e sono un po’ dittatoriale come regista. Nel cinema è esattamente il contrario: l’attenzione è diretta verso il mondo degli altri, il mio piacere è entrare e affiancarmi all’altro in un viaggio che si fa insieme. Ho iniziato a collaborare con Garrone perché il padre, Nico, critico teatrale che provava una grande stima per me, mi spronò a lavorare nel cinema, dicendomi che avevo il senso della struttura, della costruzione del dialogo e, quindi, non voglio dire che mi impose, ma suggerì al figlio che lavorassimo insieme. All’inizio, come tutte le figure suggerite dai padri, non fui accettato. Poi credo di essermi conquistato sul campo la stima di Matteo. Ricordo che nel primo film insieme, L’imbalsamatore, chiaramente la mia volontà era quella di ascoltare e suggerire ma sulla richiesta del regista. Mentre Massimo Gaudioso, che lavorava da più tempo con Matteo, capiva quando era il momento di intervenire o meno. Inoltre, bisogna tenere presente che le sceneggiature si scrivono insieme ad altri e, quindi, si deve calcolare che nessuno può rispondere appieno né di un personaggio, né di una storia. C’è un ritmo preciso dentro un team di sceneggiatori. Tu suggerisci e, se ti contraddico, cerchi subito di cambiare sguardo, posizione. È un lavoro complesso. Per quanto riguarda Reality, è un film che ho amato moltissimo, ma ho avuto la sensazione che non sia stato totalmente capito. Ora, che passa in televisione, ci sono persone che mi telefonano e mi dicono: “Ma lo sai che…”, e io rispondo: “Certo che lo so che era un film bello ed estremamente interessante!”. Il metodo di lavoro fu un po’ simile a quello in Arca Azzurra perché si partiva da una storia vera. C’era un modello vero. Ora io non entro nelle spiegazioni perché è una questione privata e riguarda Matteo, posso solo dire che era una storia vissuta, documentata, colta nei tempi reali di certi accadimenti. La storia di una perdita di contatto con la realtà. Ma dalla storia reale, la sceneggiatura faceva emergere una proiezione fantastica. Reality non documenta la realtà ma la reinterpreta».

Da anni collabora con Alessandro Benvenuti, che dota i suoi testi – e le sue regie – più cupi di una certa leggerezza. Come autore o regista, questo la infastidisce o pensa che arricchisca la sua scrittura, anche scenica?

U. C.: «Conosco Alessandro talmente bene che so già in partenza quale sarà il suo apporto e so che è sempre molto attento a capire qual è la volontà dell’autore. Del resto, il mio nero non è una forma di compiacimento. Semmai serve da piattaforma per il rovesciamento nella risata. Soprattutto quando lavoro su un adattamento da un frainteso classico della comicità come L’Avaro. Con Alessandro, comunque, non ho mai problemi. Certo, nella scrittura delle sceneggiature siamo passati anche da momenti di crisi o di scontro. Ma ne L’Avaro abbiamo lavorato secondo un modello che prevedeva di indagare su una presunta credibilità del personaggio. Era poi compito della regia far emergere una comicità involontaria».

Un’ultima domanda più politica. A livello teatrale si sta discutendo del nuovo Codice dello Spettacolo e molti si lamentano della Riforma del Fus del 2014. Lei cosa pensa della situazione attuale?

U. C.: «Per me è difficile rispondere perché ho sempre delegato ad altri il problema. Nel senso che posso solo dire quello che io ho vissuto in senso drammatico. Ossia l’impossibilità, oggi, di continuare a sperimentare, a progettare. Credo di essere stato anche uno dei fortunati che ha avuto un gruppo a cui, per trentacinque anni, è stato permesso di sottostare meno a certe convenzioni, a certe obbligatorietà, a certi codici. Ho sempre lavorato, in qualche modo, con una certa libertà. Adesso diventa tutto estremamente difficile. E proprio perché diventa difficile, non dico che non ne ho preso coscienza – ne ho preso coscienza – ma non posso dare una risposta politica. Posso dare una risposta un po’ ferita, un po’ risentita. Perché è cambiato tutto. Io stesso non posso permettermi di fare gli spettacoli che vorrei, e di continuare la mia ricerca. Perché con il gruppo, parliamo, e questa esigenza di fare un tot di bordereau mi impone di stare alle regole. Una regia, un attore noto, un autore che risponde a una aspettativa riconoscibile per il pubblico sono combinazioni di cui dobbiamo prendere atto. È come se ormai avessi delegato l’intera problematica ad altri. Io, come autore, non dico stancamente, ma finisco per accettare le regole».