Amarsi un po’

teatro-elettra-romaAl Teatro Elettra di Roma debutta Una donna sola al bar, la storia di Giulia, del suo complesso rapporto con l’amore, il sesso e se stessa. Un monologo serrato, in cui la donna si rivela ai presenti, e confessione dopo confessione trova la sua verità e – insieme – la sua libertà.

Giulia è una giovane donna in cerca d’amore. Una ricerca ossessiva, continua, dell’amore in ogni sua forma. Giulia le prova tutte: appuntamenti al buio, profili in chat, incontri casuali nei bar. Ad ogni nuovo rendez-vous il solito rituale: curare l’aspetto esteriore, abbinare vestito e scarpe, truccarsi, scegliere gli accessori e la biancheria intima (perché non si sa mai). Ogni gesto è calcolato e previsto, ogni parola selezionata e costruita. Una descrizione immediata e schietta, quella che Giulia (Teresa Luchena) fa di se stessa, così diretta che ci si chiede spontaneamente: fino a dove si è disposti a spingersi per “elemosinare” un po’ d’amore? Perché Giulia fa questo: chiede, prega, implora attenzione, un briciolo di romanticismo, chiede di essere vista come se lei stessa si percepisse invisibile, come se reputasse lei per prima di non meritare nota. Ecco allora che si imbatte negli uomini sbagliati, illudendosi alla minima gentilezza ricevuta di essere arrivata alla svolta, sminuendo così la vera essenza, il segreto dell’amore: essere se stessi, semplicemente.
Giulia è una donna persa a se stessa. Dietro i panni della mantide religiosa che in realtà finisce per divorare se stessa, o dietro la maschera da geisha, o addirittura nel travestimento da povera ragazza rumena immigrata in Italia (ennesimo espediente per agganciare uomini e ancora uomini) altro non si cela se non una donna sola, una persona sola.
Forse infatti per questa figura, così ben disegnata nella sua complessità, è proprio il caso di non dare una categorizzazione di genere: donna sì, ma soprattutto persona che, nel suo cammino, si scopre essere attratta anche dalle donne. Che l’oggetto dell’amore/desiderio sia una donna o un uomo poco importa: in entrambi i casi ci si imbatte in gioie e delusioni. Lo sguardo allora si sdoppia per poi ricongiungersi in un punto solo, e cadono i cliché e gli stereotipi per cui a uscirne massacrati son sempre, o quasi, solo gli uomini. Donne e uomini, seppure diversi, sono fatti della stessa pasta, e scagli la prima pietra chi non ha mai ferito. Il punto di vista si eleva al di sopra delle parti e delle categorizzazioni e il testo, i suoi tanti messaggi, arrivano come un pugno dritto nello stomaco, come un’epifania, un risveglio da un lungo torpore.

Una donna sola al bar, dunque, ma forse appunto più di una: sono due, se si pensa alla duplicità delle relazioni sessuali di Giulia (etero e omosessuali), o addirittura tre, se ben si osserva il percorso di intima scoperta che si delinea nel tempo immaginario e reale della rappresentazione. Si tratta di una Giulia in tre fasi: compulsiva (in cerca di un uomo a ogni costo, fosse anche senza amore, senza rispetto per lui né per sé), consapevole («l’amore non è sesso, l’amore non ha sesso» per dirlo con parole sue, ovvero alle prese con una scoperta tanto minimale quanto fondamentale) e libera. Un momento, questo, supremo nella sua visionarietà: Giulia, che al principio lo spettatore ha percepito in tutta la sua concreta, spessa carnalità, lascia finalmente cadere le zavorre dei suoi buchi neri, spezza le catene delle mancanze e del passato, e sembra quasi aleggiare sulle cose terrene, come un respiro, come un addio. È qui il culmine del lirismo testuale e scenico di tutta l’opera: qui regia, disegno luci, interpretazione e supporti musicali trovano la loro perfetta fusione. Qui si perde la quadratura figurativa dell’opera e si entra nel campo della suggestione, dell’informale. Ed è proprio qui che l’interpretazione di Teresa Luchena si fa più convincente: l’attrice dà il meglio di sé proprio nei segmenti più complessi e onirici, in cui facilmente lo spettatore potrebbe scivolare via nei suoi pensieri e invece resta ancorato alla vicenda rappresentata come fosse la propria.

Dal punto di vista prettamente tecnico, l’allestimento dell’inedito duo Francesca Romana Miceli Picardi e Alfredo Agostini – il secondo esordiente alla regia – sfoggia alcune qualità non indifferenti. Oltre il già citato sviluppo stilistico, narrativo ed emotivo, ha convinto in maniera particolare la scelta di non volersi affidare semplicisticamente a un impianto monologico tradizionale, non concentrando sul soggetto recitante tutta l’attenzione degli spettatori e l’intenzione drammaturgica. Una scelta che, per un verso, avrebbe probabilmente agevolato e semplificato i processi di coinvolgimento empatico, ma che per un altro, vista la realizzazione concreta dello spettacolo, ne avrebbe sicuramente impoverito la potenza visiva e la ricchezza simbolica.

La regia, infatti, sceglie di complicare l’ecologia dell’ambiente in cui Giulia agisce non con l’abbondanza scenografica, ma attraverso la continua e mai banale interazione scenica tra l’attrice e i pochi oggetti che la circondano. Questi, peraltro, non sfuggono a una grammatica ben precisa, a una semantica che li vuole lì e non altrove (le due sedie appese in aria, ad esempio, che la protagonista in momenti precisi lascia cadere a terra recidendo con un colpo di forbice il filo che le sostiene, sono la chiara simbologia delle due diverse “stagioni dell’amore” che la donna sta attraversando, e restano sospese finché Giulia non ne farà realtà, sue realtà, portandole giù e utilizzandole).
In questo modo Una donna sola al bar raggiunge un duplice e affatto scontato obiettivo. Il primo è immediato, ovvero superare il tipico rischio delle strutture monologiche che affidano quasi interamente la propria riuscita alle doti interpretative dell’attore. Il secondo è più sottile, da valutare in prospettiva e che rappresenta la sfida drammaturgica più stimolante, ed è la capacità di Una donna sola al bar di costruire un racconto gravido di ulteriori sviluppi, nel quale il pubblico – per le future messe in scena – potrà non solo riconoscersi e contemplarsi, ma sentirsi accomunato e partecipe. Questo perché le vicende di Giulia, incastrandosi sapientemente tra palco e realtà, tra dimensione individuale e dimensione ideale, si offrono naturalmente aperte al confronto con l’interpretazione emotiva e intellettuale di chi assiste, così come di chi lo interpreta.

Uno spettacolo, dunque, che si annuncia da ri-scoprire anche per chi ha già avuto modo di ammirarlo. Un’occasione, un’esperienza da non lasciarsi sfuggire fin dalla prossima data, prevista per il 17 maggio al Teatro Abarico nel popolare quartiere di San Lorenzo.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Elettra

via Capo d’Africa, 32 – Roma
2 e 3 maggio 2014, ore 21.00

Una donna sola al bar
di Francesca Romana Miceli Picardi
regia Francesca R. Miceli Picardi e Alfredo Agostini
con Teresa Luchena
luci e fonica Francesca Corso

Lo spettacolo continua:
Teatro Abarico

via dei Sabelli, 116 – Roma
17 Maggio 2014, ore 21.00