Un garibaldino disilluso in esilio

pergola-teatro-firenze«La mia libertà equivale alla mia vita». Questa, oltre a essere l’epitaffio della sua tomba, è una frase pronunciata da Craxi, magnificamente interpretato da Alessandro Haber, nello spettacolo Una notte in Tunisia, andato in scena alla Pergola.

In questo sorprendente spettacolo, la fierezza intellettuale dell’esiliato Craxi o, come viene qui chiamato, X, non viene mai meno. Egli si è ritirato in una Tunisia inodore («non si sente più il profumo del gelsomino»), assieme al fedele maggiordomo, Cecchin, e alla moglie. La scenografia è ermetica e pregna di significato: ai lati del palco vi sono due colonne greco-romane, a dominare la scena una tela blu e bianca e il tavolo di lavoro di X. A noi pare vuoto, ma è Cecchin a descrivercelo: su di esso vi sono un gran turbinio di fogli e l’immagine di Garibaldi. Il patriottismo di matrice garibaldina – l’unico, peraltro, che il politico sembra riconoscere come autentico e sano – attraversa l’intera pièce: a più riprese X si fa profeta e descrive la disgregazione e la morte della patria odierna, nella quale afferma di non voler tornare più, «neanche da morto». Essa, difatti, non è più abitata da eroi e uomini intelligenti, ma è corrotta da una turba di «tipi», quei tipi che popolano la commedia dell’arte. X critica con ferocia una tale maggioranza e anche la cosiddetta «civiltà spettatrice», incapace cioè di sottrarsi alla influenza sobillatrice della televisione (strana notazione, se si pensa alle amicizie dell’on. Craxi). Il fulcro del suo testamento è perciò il seguente: la Patria non esiste più, in Italia non esiste né è mai esistito uno Stato. Esso è fittizio, convenzionale, come lo sono la stesura della Costituzione, la prima, la seconda repubblica e poi ancora ed ancora. Là, nel suolo natìo ormai lontano, sopravvivono, inestirpabili, lo Stato della Chiesa, il regno delle due Sicilie e quello di Sardegna. Costituzionalmente, la politica italiana è vuota e, se si riempie, «si riempie di merda». Su questa vuotezza si plasma in maniera acritica la società civile.

L’insistenza sulla falsità, sul vuoto, sulla degenerazione intesa in senso clinico, patologico, è continua. In essa non sembra scorgers alcun senso di rivalsa. Ogni sentimento è mosso da e ridotto a una autocelebrazione che corrode ed esalta X nella sua completa solitudine. «La vita è politica», l’amicizia è politica, anche la famiglia lo è. Non c’è spazio per il cuore. Non c’è spazio neppure per la carità e la compassione, che X svilisce a tal punto da definire Gino ‘Piazza’ (Strada) un santo laico, simile ai santi ‘normali’ ma ancora più fastidioso perché ossessionato dalla situazione in cui versano i disperati, gli ultimi. Questi santi laici amano riempirsi la bocca di espressioni vuote e contraddittorie: come fa il commercio a essere equo e, addirittura, solidale? X è ossessionato solo e soltanto dalla propria intelligenza, dal gigantismo della sua statura. Egli è il re e alla sua morte seguirà quella della politica.

Haber recita per gran parte del tempo con dei fogli appoggiati su di un leggio. Questo è, forse, l’elemento che più attira l’attenzione: forse per nostalgia dell’emiciclo – in cui, se si paventava la possibilità di dire la verità, tutti i parlamentari si ridestavano improvvisamente (compresi i Radicali) – o, più probabilmente, per l’autoreferenzialità. Anche il fratello lo avverte, a bassa voce: quel testamento redatto con tanta cura non ha nessun erede. Egli, oramai, legge i propri lasciti solo a se stesso. In essi viene percepito drammaticamente il vuoto, l’infezione che ammorba tutto: «nel vuoto tutto si logora, si disgrega e si decompone».

Anche la disgregazione e l’infezione della famiglia sono palesi. Grande importanza ha, nel corso dello spettacolo, un sogno che X ha fatto: egli, solo, aveva assistito – in un corpo che non era il suo – al proprio funerale; la bara, apertasi dopo una caduta, aveva mostrato le spoglie mortali e gli occhi sbarrati di X. Allora, in preda ad una furia disperata, si era frugato nelle tasche per cercare due monete con cui coprirsi gli occhi, condannati come per un fatale contrappasso ad assistere anche nella morte al disfacimento dell’umanità. Alla morte del fratello, egli griderà a Cecchin «due monete per i miei occhi!». Fine.

Tutti i personaggi, assai convincenti, che calcano la scena sono complessi e misteriosi: il fratello di X (Roberto Trifirò) è l’alter ego. Anche lui disilluso dagli inganni del potere, è teso in qualche maniera verso la santità laica, espressa anche dall’abbigliamento indiano. Altrettanto macchinosa e disumana di X pare la moglie (Maria Ariis), disposta a servirsi di qualsiasi mezzo – pare persino che uccida il cognato – pur di far tornare il marito a Milano. Cecchin (Pietro Micci), intelligente e compiacente al punto giusto, è l’unico ad andare d’accordo con X – non a caso, è l’unica persona ad avere un nome. La sua presenza è surreale ed efficace ai fini dello straniamento: parla in terza persona e, molto spesso, descrive con freddezza le sue azioni invece di compierle. Sembra una caricatura davvero ben riuscita.

Rumorosi applausi per questo monologo di ricordi più o meno pseudoagiografici e insieme di filosofia politica, che mai trascende il presente, che mai guarda al futuro.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro della Pergola
Via della Pergola, 18 – Firenze
dall’11 al 16 marzo ore 20:45, domenica ore 15.45

Teatro Franco Parenti e Gli Ipocriti presentano
Una notte in Tunisia
di Vitaliano Trevisan
regia Andrée Ruth Shammah
con Alessandro Haber, Maria Ariis, Pietro Micci, e Roberto Trifirò
scene e costumi di Barbara Petrecca
luci Gigi Saccomanni
suono Yuval Avital