Tra storia e poesia

Al Teatro India di Roma, per il Romaeuropa Festival, è andato in scena Unwanted, perfomance di Dorothée Munyaneza sull’ecatombe e il dolore delle donne ruandesi.

Messo al bando dalle Convenzioni di Ginevra solo nel XX secolo, lo stupro di guerra venne codificato per la prima volta al tempo della Secessione americana, all’interno dei General Orders, con l’esplicito divieto di violenza sessuale sulla popolazione civile e una menzione significativa alla salvaguardia del focolare domestico. La legislazione, dunque, era votata alla protezione dell’onore dei padri e dei maschi e non delle vittime designate di quello che sarebbe errato interpretare esclusivamente quale crimine di genere, nonostante la stragrande maggioranza dei bersagli sia da sempre femminile.

Già Jean-Jacques Rousseau premeva per la protezione dei civili in guerra, ma quello dei crimini sessuali rappresenta uno studio specifico e complesso del diritto internazionale penale e umanitario contemporaneo. Nei suoi confronti, il cosiddetto Occidente ha spesso mostrato poca sensibilità e molto timore, come se si sentisse minacciato dal rischio di veder smascherata la propria presunta superiorità rispetto al resto del mondo.

Lo stupro di guerra è un concetto tra i più indicativi dello stato di salute di una cultura, se non proprio di una civiltà moderna. Infatti per la quantità e la qualità con cui tanti episodi di violenza sono stati mal raccontati dalla e nella storia, esso rappresenta anche per il nostro «benedetto assurdo belpaese» (Cirano, Francesco Guccini) una spia di quanto i nostri valori siano intrisi di atavica e pericolosa ipocrisia.

La casistica è troppo ampia per essere citata esaustivamente, ci limiteremo a ricordarne due. Il primo, da annoverare tra quelli mascherati da fatti eroici, è il celebre Ratto delle Sabine, atto che i libri di storia continuano a esaltare quale momento fondativo di una città (Roma) che avrebbe dominato il mondo e il cui mito classico, ancora oggi, viene preso a esempio da sedicenti insegnanti ed educatori incapaci di andare oltre l’arida perpetuazione di programmi scolastici insensati nella loro rigida disumanità; il secondo, ascrivibile tra quelli stranamente dimenticati, ce lo ricorda magnificamente la nostra Valeria Palumbo nell’articolo La Caporetto delle donne: il dramma taciuto degli stupri e dei «figli della guerra».

Tuttavia, se il tema degli stupri di guerra non è solamente rilevatore di quanto modelli e ideali bigotti possano essere dannosi se non sostenuti da un adeguato e sincero modello didattico e pedagogico, tantomeno esso potrà essere ridotto ad argomento di disputa teorica. La sua fenomenologia in pieno XXI secolo è, infatti, in continua evoluzione e la sua funzione sembra essere profondamente cambiata: lo stupro e l’abuso sessuale non costituiscono più uno scontato prodotto della guerra, un elemento connaturato e conseguente al conflitto nei termini di meritata ricompensa per le truppe (come le nefaste marocchinate perpetuate dai goumier francesi in Italia nella seconda guerra mondiale), o di scherno dei vincitori sui vinti, perché in essi si disvela una strategia militare utilizzata deliberatamente in maniera strutturale e non accidentale, una vera e propria weapon of wardurante la guerra, la violenza è utilizzata come un’arma, eppure rimane un crimine di cui si parla appena», citazioni in corsivo da Dorothée Munyaneza).

La violenza sistematica dei militari sulle popolazioni – che, come detto, nella quasi totalità dei casi agisce sulla parte femminile – non volge più (almeno non esclusivamente) a ottenere un effetto animale o psicologico, ad alzare il morale delle proprie truppe e abbassare quello dei nemici (famoso il caso delle Comfort women di Nanking della seconda guerra mondiale), quanto al raggiungimento di precisi obiettivi strategici per lo più assimilabili al controllo sociale (attraverso l’intimidazione delle popolazioni locali costrette ad abbandonare i territori occupati) e alla pulizia etnica, una pratica che, sulla scorta del darwinismo sociale progressista della Belle Époque, rappresenta un modello di igiene estetico tutt’oggi duro a estinguersi e che, con la guerra in Bosnia ed Erzegovina del 1992, ha assunto caratteri ancora più drammaticamente sopraffini. Si è passati, infatti, dall’evitare che vite nate sbagliate potessero inficiare la naturale selezione della razza al segnare in maniera indelebile una comunità, al seminare il grembo di donne spesso impossibilitate ad abortire (perché vietato dalla legge o povere) e, dunque, costrette a generare i figli del nemico e a perpetuare l’etnia patriarcale del violentatore.

Da questo spaventoso – e non completo – impianto (dis)umanitario prende le mosse Unwanted della cosmopolita Dorothée Munyaneza, artista nata in Ruanda, oggi cittadina britannica e residente in Francia, la cui intenzione drammaturgica e coreografica riguarda «la questione del corpo femminile come campo di guerra, invaso sessualmente e con violenza dagli uomini quando vengono invasi territori» e ricorda come tutto ciò continui ad accadere «attualmente nella Repubblica Democratica del Congo, in Siria, in Ciad […] in Rwanda durante il genocidio dei Tutsi e ancora nell’ex Jugoslavia. Si tratta di realtà taciute, ancora tabù, soprattutto se legate a bambini discendenti da violentatori e dalle loro vittime».

Unwanted si focalizza sulla vicenda del genocidio del Ruanda del 1994, quando centinaia di migliaia di donne e ragazze subirono inaudite forme di violenza sessuale da parte della Interahamwe (la milizia Hutu). Un contesto lancinante, in cui lo stupro divenne regola e la sua assenza eccezione, al punto che, nel 1998, il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda associò, per la prima volta nella storia, lo stupro di guerra al genocidio, sancendo esplicitamente che «the rape of Tutsi women was systematic and was perpetrated against all Tutsi women and solely against them […] constitute the factual elements of the crime of genocide» (The Prosecutor v. Jean-Paul Akayesu).

A muovere la Munyaneza è allora una sensibilità espressiva diffusa e urgente (già riscontrata, per esempio, nella messa in scena di un testo di Matei Vişniec a TeatRomania nel 2014, Del sesso della donna come campo di battaglia nella guerra di Bosnia). Frammenti autentici, intrisi di una sofferenza dilaniante ma non senza fine, caratterizzano infatti una drammaturgia che affonda le proprie radici nella biografia della stessa artista, miracolosamente scappata al genocidio e dal Ruanda a soli 12 anni. Unwanted evoca e trasforma una ferita che non ha risparmiato tante donne meno fortunate di lei, donne respinte e mutilate nel corpo e nello spirito; donne che Dorothée Munyaneza ha incontrato, riuscendo a parlare anche con i rispettivi figli («oggi sono giovani adulti di età compresa tra i 22 e i 23 anni»), e di cui ha registrato le testimonianze per dare forma e sostanza a questo allestimento.

La distruzione della personalità di vittime devastate da sensi di colpa e autodisprezzo, la marginalizzazione dello stigma sociale (le donne non erano più sposabili, venivano abbandonate dai mariti e criticate dalle famiglie), le gravidanze di bambini mai desiderati, la diffusione massiccia di malattie veneree costituiscono l’incipit drammaturgico di Unwanted, che parte dalla psicologia delle stesse donne (con la sovrapposizione, in momenti dall’alto tasso emotivo, delle registrazioni in lingua Kinyarwanda e della traduzione live in inglese e francese della Munyaneza) e giunge alla concretezza del loro dolore, così esondando il piano squisitamente narrativo attraverso la contaminazione di splendidi inserti musicali/cantati e toccanti momenti di danze scomposte, e, infine, chiudendosi canonicamente in una ringkomposition, unica ed efficace – nella sua prevedibilità – concessione a un finale consolatorio.

Il pianeta è ormai solcato da una never ending war chiamata peacekeeping e le donne del Ruanda stanno «come d’autunno sugli alberi le foglie» (Soldati, Giuseppe Ungaretti); la Munyaneza fa allora della propria voce un canto straziante che la meravigliosa stratificazione dal vivo delle mille intonazioni della sua compagna di palcoscenico, Holland Andrew, non lascia mai solo, mentre del suo corpo, una massa critica del dolore, la musica di Alain Mahé «trasforma ogni minimo particolare in violenti torrenti […] per precedere e prolungare il gesto e per consentire allo spettatore di ascoltare e respirare ciò che viene detto. Di vivere insieme, nel buio così come nella luce».

La Munyaneza utilizza «la danza, la musica, la poesia, la pittura, la canzone» per «trasformare e trasmettere queste voci, queste testimonianze; portarle attraverso il […] corpo al pubblico» e «non rimanere ai margini del nostro mondo», componendo un allestimento che, pur privo di sperimentalismo, risulta assolutamente efficace nel veicolare «una questione molto importante: come artista non […] essere indifferente a ciò che succede nel mondo, sia nelle zone […] più vicine che in quelle […] più lontane» .

Unwanted reitera, in uno sviluppo lineare e progressivo, l’intreccio di due polarità attorno alle quali ruota la messa in scena: la prima è relativa alla singolarità dei quadri che la Munyaneza compone quasi ossessivamente secondo il medesimo schema, procedendo da una iniziale situazione descrittiva (dell’esperienza) di caos calmo a ripetuti climax bruscamente interrotti, momenti in cui danza, musica e performance diventano un’assordante ensemble emotivo; la seconda polarità è quella della successione di quegli stessi quadri all’interno di un opposto, più grande e generale anticlimax, un vertiginoso scioglimento delle emozioni che porta Unwanted dall’immensa e attuale tragedia della vita quotidiana delle donne ruandesi alla speranza di un futuro migliore. Un futuro annunciato nel finale e che oggi, per il Ruanda, nel 2008 primo paese al mondo con un parlamento a maggioranza femminile, non sembra essere del tutto una chimera, nonostante il livello di democrazia rimanga sotto i livelli di guardia, soprattutto nelle comunità rurali.

Nessun manierismo di facciata, nessuna stucchevole ridondanza, nessun senso di fastidiosa forzatura o noiosa ovvietà viene consegnato a un pubblico che pure sarebbe ormai avvezzo a consumare scene di bestialità senza fascia protetta. E se, per un verso, nulla inficia la collocazione degli spettatori alla giusta distanza (tra straniamento e immedesimazione, tra lucida commozione e compartecipazione a un dolore che affligge un’intera generazione di questo piccolo Paese nel cuore dell’Africa), per l’altro, sconcerta la delicatezza con cui Munyaneza, assistita da Andrew e Mahé, abita un palco scarno ed essenziale, reso espressionista dalle variazioni cromatiche sui toni caldi di Christian Dubet. Senza patire un complessivo e latente didascalismo, Unwanted è una performance notevole, esaltata da una scenografia chiaroscurale e impreziosita da alcune (poche) soluzioni più raffinate, dalla carta quale metafora della relazione estorta tra madri e figli alla vestizione finale di Andrew, bell’auspicio per una nuova allenza.

Potente e adamantino alla comprensione dello spettatore, Unwanted non dimentica o teme di sconvolgerlo e, nell’essere apocalittico, si offre maieutico collocando una storia (particolare) all’interno di una visione artistica (generale). Munyaneza dona al racconto le vesti di una poesia (in prosa), declama parole crude senza rime, espone eventi reali quali sono avvenuti e riesce, paradossalmente, a provocare la memoria e a sperare di poter agire nel futuro affinché non debba più accadere, così trasfigurando la storia (del Ruanda) nella lirica (del teatro). Unwanted, nella sua restituzione ibrida e splendidamente ambivalente, dionisiaca e catartica nell’immedesimazione coreografica, apollinea e riflessiva nella sua straniante frontalità verbale, compone allora un vero e proprio mythos ed elude tutti i rischi del moralismo e del soggettivismo del teatro-documentario, cui pure a tratti si espone nella misura in cui ne sfiora la dimensione scenica con eccessivo coinvolgimento patetico. Quello che Munyaneza propone è uno spettacolo manicheo, in cui è palese chi siano le vittime e chi i carnefici e, con Unwanted, realizza un affresco paradigmatico (della violenza sulle donne) in cui si riflette ciò che viene narrato (le vittime in Ruanda).

I lettori ci perdoneranno la lunga dissertazione con cui abbiamo provato a motivare il nostro deciso plauso a Unwanted e al modo in cui Dorothée Munyaneza, ribaltando la celebre tesi di Theodor Adorno («scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie»), ha saputo interpretare il teatro come rifrazione della propria società.

Unwanted, ricordandoci come la guerra sia un’assoluta – ma spesso lucida e calcolata – follia, è allora la bella testimonianza di un teatro che ha perso la propria serenità e che, nonostante tutto, continua testardamente – ed efficacemente – a farsi carico di una funzione critica della società e dei suoi sciagurati orrori.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno del Romaeuropa Festival 2017
Teatro India
11 e 12 novembre 2017
ore 21, ore 17

Unwanted
ideazione, coreografia Dorothée Munyaneza
con Holland Andrews, Alain Mahé, Dorothée Munyaneza
consulenza artistica Faustin Linyekula
ideazione scene Vincent Gadras
artista della plastica Bruce Clarke
ideazione luci Christian Dubet
musica Holland Andrews, Alain Mahé, Dorothée Munyaneza
ideazione costumi Stéphanie Coudert
direzione tecnica Marion Piry
produzione, amministrazione, diffusione Emmanuel Magis/Anahi
produzione Compagnie Kadidi, Anahi
coproduzione Festival d’Avignon, Théâtre de Nîmes – scène conventionnée pour la danse contemporaine, Le Liberté – Scène Nationale de Toulon, Pôle Arts de la scène – Friche la Belle de Mai, La Chartreuse de Villeneuve-lez-Avignon – Centre national des écritures du spectacle, Musée de la Danse – Rennes, Théâtre Garonne – scène européenne – Toulouse, MCB Maison de la Culture de Bourges Scène nationale, Bois de l’Aune – Aix en Provence, BIT Teatergarasjen-Bergen, Pôle Sud – Centre de développement chorégraphique de Strasbourg, L’échangeur CDC Hauts de France, Escales danse en Val d’Oise, Théâtre de St Quentin-en-Yvelines, Scène nationale, Théâtre du fil de l’eau – ville de Pantin, Théâtre Forum Meyrin, Genève, Tanz im August/HAU Hebbel am Ufer, Berlin, Festival d’Automne à Paris
sostegno a DRAC PACA – ministère de la Culture et de la Communication, Région PACA and ARCADI, Fonds de dotation du Quartz – Brest, Creative Exchange Lab of Portland Institute for Contemporary Art, Africa Contemporary Arts Consortium/USA, and Baryshnikov Arts Center, New York, NY, ICRC – International Committee of the Red Cross, Fonds SACD stage music e Fonds SACD Theatre, Fonds Transfabrik – Franco-German fund for performing arts, ADAMI
con l’aiuto di Montevideo – Marseille
la Compagnie Kadidi riceve regolarmente il supporto dell’Institut Français per le tournée internazionali