Processi di autodistruzione individuale

Umorale, incoerente e diversamente affettivo: al Teatro dei Conciatori, con Vecchi tempi, va in scena l’essere umano secondo Harold Pinter.

Elemento cardine dell’esistenza, perché su di esso si struttura il presente e si progetta il futuro, quello della memoria è un argomento alquanto delicato. Se in ambito artistico diventa particolarmente arduo da maneggiare, perché la memoria intesa semplicisticamente come passato rischia di essere percepita quale rapporto ovviamente inadeguato rispetto ai vertici raggiunti dai maestri che furono, tale fardello, anche quando declinato al positivo secondo il celebre aforismia di Bernardo di Chartres («siamo come nani sulle spalle di giganti»), racconta ben più di un mero rapporto di sudditanza borghese o, viceversa, di ribellione avanguardistica.

A dimostrare con orgoglio l’assoluta statura del contemporaneo, è stata – per sempio – la straordinaria attività di Harold Pinter, un autentico gigante del XX secolo anche, ma non solo, per come seppe porsi in un’ottica di confronto attivo e creativo con modi teatrali considerabili d’antan. E tra i tesori pinteriani che la regia di Michael Rodgers di questi Vecchi tempi salvaguardia splendidamente da una certa modalità sacrificale dell’attuale ricerca teatrale riscopriamo il testo e, in particolare, la straordinaria potenza drammaturgica con cui l’autore britannico riuscì a determinare realisticamente interi mondi interiori attraverso il semplice dialogo.

Rodgers sceglie di rappresentare il dramma dei Vecchi tempi con sostanziale fedeltà rispetto all’originale, assumendo una dimensione narrativa tradizionale, apparentemente priva di sviluppo e compassata nelle dinamiche, dunque priva di significative coordinate spazio-temporali, ma non per conservarne (se non in nuce) la spietata analisi delle ipocrisie e delle nevrosi tipiche della middle class londinese, quanto per declinarne il senso in una struggente decontestualizzazione rispetto a uno specifico e riconoscibile ambiente sociale.

Poggiando esclusivamente su una modalità verbale priva di colpi di scena o trovate spettacolari, il conflitto esistenziale che agita le diverse stagioni della vita di ogni singolo viene così trasfigurato nella forma di un incontro impossibile tra esistenze interrotte, di scontro tra memorie spersonalizzate perché riferite a un processo di decostruzione della propria psiche.

La scelta (esistenziale), nonostante una recitazione a tratti affettata, alcune incoerenze testuali e l’inopportuna scritta kitsch Harold Pinter al centro della scena, complessivamente funziona senza disperdere il patrimonio dell’intenzione pinteriana, mentre la depressa restituzione delle proiezioni dei fantasmi della mente di Kate, Anna e Deeley all’interno di una collocazione più archetipica che di classe riesce a sfruttare le potenzialità offerte dalla stanza-soggiorno disegnata da Mauro Radaelli. Una scena che, minima nella sua completezza, connota con semplicità il contesto in cui si consuma l’intima lacerazione psichica dell’individuo attraverso la scomposizione relazionale della sua personalità in tre personaggi, le cui storie si intrecciano rizomaticamente in una dialettica senza possibilità di sintesi o di soluzione.

Una dialettica che, a testimonianza della sublime capacità di Pinter di indagare gli abissi dell’animo umano, ricordandoci quanto sia facile oltrepassare il solco che divide la ricerca del confronto dall’esposizione al conflitto, continua a rimanere, purtroppo, tremendamente attuale.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro dei Conciatori

via dei Conciatori, 5 – Roma
dal 02 al 14 maggio 2017

Vecchi tempi
di Harold Pinter
regia Michael Rodgers
con Christine Reinhold, Lisa Vampa, Marco S. Bellocchio
scene Mauro Radaelli
costumi Verde Lilla e Maurizio Baldassarri
musiche Piero Umiliani
traduzione Alessandra Serra
illustratore Roberto Ronchi light
design Claudio De Pace