L’eccedenza e il sublime

Al Festival Verdi, la prima volta di Lenz è Verdi Re Lear, l’impossibile omaggio al cigno di Busseto.

È una (discutibile) convenzione (ormai canonicamente accettata) quella che segna nell’età risorgimentale della seconda metà del XIX secolo, l’avvio della Storia d’Italia con le ideologie di patria e nazione, i movimenti di popoli e di idee, le circolazioni di merci e persone indiscusse protagoniste dei discorsi di storici, intellettuali e politici.

Al club dei padri si iscrive necessariamente Giuseppe Verdi, tra i compositori più grandi di sempre, maestro di livello internazionale per tecnica ed eleganza esecutiva, nonché incarnazione – non a caso al pari di Alessandro Manzoni – dello Spirito di una nazione, la cui identità culturale e sociale si palesò da subito tanto problematica, quanto con quella innaturale ovvietà che, come tutte le imposizioni dall’alto, fu figlia di necessità politiche volte incoerentemente e/o paternalisticamente al bene comune perché in realtà espressione del blocco storico ormai dominante (la borghesia).

Con un drammatico ribaltamento di priorità (in primis l’Italia, poi gli italiani), l’Unità fu, soprattutto a livello popolare, vissuta quale dominio da parte di chi pensava che, «fatta l’Italia, fare gli italiani» fosse una sorta di mission laica (Mazzini), economica (Cavour) o religiosa (Manzoni) ed edificò il primato storico dell’essenza sull’esistenza, del dover essere sull’essere autenticamente.

Di-svelando – attraverso l’arte – il complesso rapporto tra normalità e diversità, tra cultura e potere, tra norma e rivoluzione, quella antinomia si destruttura sul solco delle analisi di Lenz delle origini della nostra cultura, il cui conformismo (reale e drammaturgico) ha ridotto al soliloquio un intero mondo di shakespearean fools ritenuto non funzionale ai meccanismi e ai dispositivi di produzione e omologazione. Sfuggendo a ogni tentazione di caduta estremistica e compensandosi in un fantastico equilibrio tra ricerca estetica ed analitica esistenziale, quello raggiunto da Francesco Pititto e Maria Federica Maestri è un compiuto formalismo. Audace nello spingersi oltre, cosciente nel fissare la propria direzione drammaturgica e sempre mirabile nel restituire capolavori della cultura nazionalpopolare in vesti rinnovate e perfettamente aderenti, lo abbiamo ammirato da I Promessi Sposi all’Adelchi, fino a Il Furioso (da Ludovico Ariosto), esemplari diversamente modulati di una poetica in grado di sfoggiare vertici assoluti in termini di esperienza e qualità attorale, registica e scenica.

Da tali premesse archeologiche (culturali e teatrali), ma con un inedito privilegio accordato alla resa estetica, prende corpo Verdi Re Lear – L’Opera che non c’è, ambizioso progetto volto alla realizzazione di ciò che rimase incompiuto, dunque non esistente e impossibile da porre definitivamente di fronte agli occhi: l’opera di Giuseppe Verdi «mai musicata e di cui esiste solo il libretto di Antonio Somma contenente le correzioni dello stesso compositore».

La dimensione itinerante – che, per esempio, ne I Promessi Sposi costituiva la declinazione immersiva attraverso cui dare corpo alla responsabilità del pubblico – viene spezzata senza essere interrotta, resa anch’essa incompiuta perché affidata alla centralità della prospettiva di visione e confinata al momento di cambio di sala tra il primo e il secondo atto, la cui successione diacronica puramente casuale (a sorteggio) scardina aprioristicamente ogni aspettativa e intreccio narrativo.

Due allestimenti nell’allestimento, dunque, che, grandiosi nell’intenzione e titanici nella realizzazione, hanno visto la splendida collaborazione del Conservatorio di Musica A. Boito di Parma con la consulenza musicale di Carla Delfrate, quella al canto di Donatella Saccardi, e la partecipazione di eccellenti cantanti lirici.

Ad accogliere i due gruppi di spettatori sono cast e scenografie diverse. I primi – pur nella diversità tra gli atti – sono abitanti erranti di un mondo cui sono con-segnati per inscenare «la materialità dei corpi che, dialogando con l’immaterialità dell’immagine, genera un’immagine-sogno», realistici brandelli del rapporto asintotico tra libertà e dovere, tra ragione e follia, tra naufragio dell’ego e deriva dei sentimenti, ovvero di quella tragedia dell’eccesso e dell’eccedenza che fu il King Lear del Bardo. Le seconde, entrambe poste oltre «velari trasparenti» su cui – a seconda della sala – si vedranno agire corpi e volti in proiezione, colpiscono per la diversità e l’efficacia dell’impatto visivo, ma, forse e ancor di più vista la commistione di sensibilità in scena, per la comune capacità di concorrere alla costruzione di una tipica veste operistica povera, condividendo tale merito con la densità sonora delle rivisitazioni verdiane di Scanner, strabilianti nel vestire letteralmente i volti e le interpretazioni di differenti tonalità caratteriali e drammatiche.

Una rappresentazione, allora, «impassibile e si divide, si sdoppia, senza rompersi, senza agire, né patire» (Gilles Deleuze, Logica del senso), che, nonostante una diversa impressione di omogeneità, dalle strepitose geometrie e coralità della Sala Est all’intensità plastica a tratti calante della Sala Majakovskij, si pone in sublime coerenza con il progetto di Lenz Fondazione, testimoniando in pieno la forza, l’urgenza e la potenzialità dell’arte quale strumento espressivo e contesto non coercitivo in cui lasciare che ognuno possa realmente affermare «diventa ciò che sei».

Lo spettacolo è andato in scena all’interno del Festival Verdi:
Lenz Teatro

via Pasubio 3/e, Parma Italy

Verdi Re Lear
da Re Lear di Somma-Verdi prima versione con le varianti e King Lear di William Shakespeare
ricerca, drammaturgia e imagoturgia, regia Francesco Pititto
music + live electronics Robin Rimbaud aka Scanner
installazioni e costumi Maria Federica Maestri
consulenza musicale M° Carla Delfrate
consulente al canto Prof. Donatella Saccardi
con Rocco Caccavari, Paolo Maccini, Franck Berzieri, Carlo Destro, Paolo Pediri
performer Valentina Barbarini – Cordelia/Delia, Barbara Voghera – Fool/Mica, Giuseppe Barigazzi – Lear in immagine
cantanti Haruka Takahashi – Regan/Regana soprano, Ekaterina Chekmareva – Goneril/Gonerilla mezzosoprano
Gaetano Vinciguerra – doppio Lear baritono, Lorenzo Bonomi – doppio Lear/Edgar/Edgardo baritono
Andrea Pellegrini – doppio Lear basso, Adriano Gramigni – Gloucester basso
voce over Rocco Caccavari
cura Elena Sorbi
organizzazione Ilaria Stocchi
comunicazione Violetta Fulchiati
ufficio stampa Michele Pascarella
direzione tecnica Alice Scartapacchio
assistente alla regia Valeria Borelli
équipe tecnica Gianluca Bergamini, Gianluca Losi, Stefano Glielmi, Marco Cavellini
produzione Lenz Fondazione
in collaborazione con il Conservatorio di Musica A. Boito di Parma