Una vocazione teatrale

Dolore e solitudine dell’attore: Danio Manfredini e Vincenzo Del Prete all’Elfo Puccini di Milano.

Vocazione di Danio Manfredini è una sorta di esame di coscienza, uno sguardo impietoso sulla condizione dell’attore e sulla recitazione, ma anche un atto di accusa alla società contemporanea che non ha occhi “per vedere queste meraviglie”. Lo spettacolo, che nella sua veste definitiva ha debuttato quest’estate al festival di Sant’Arcangelo di Romagna, è ora all’Elfo Puccini di Milano.
Appartato, fuori dai grandi circuiti e dai giochi di potere, Danio Manfredini ha da sempre coltivato un amore sconfinato per tutte le forme della marginalità. E il rigore di questo percorso solitario (ma non scontroso, basti pensare alle sue vivaci collaborazioni con Pippo Delbono e Cesare Ronconi del Teatro della Valdoca) lo porta oggi, dopo aver vinto ben tre premi Ubu con gli spettacoli Miracolo della rosa (1989), Al presente (1999) e Cinema Cielo (2004), a interrogarsi, in compagnia dell’ottimo Vincenzo Del Prete, sul significato di quella che è stata la scelta della sua vita con uno spettacolo sincero ed essenziale.
Scena nuda, solo un bianco velario in fondo, usato in trasparenza o come schermo per poche suggestive diapositive. Qualche sedia, i costumi dei vari personaggi ai lati, le maschere. Sulle note dei Pagliacci di Leoncavallo (in questo spazio vuoto la musica è struttura e si potrebbe parlare quasi di scenografia sonora), Danio Manfredini compare dietro un velario. Ricorda il compianto Leo De Berardinis in una delle sue ultime apparizioni, così come nei suoi travestitismi (complice il cranio rasato) più di una volta ci appare il fantasma di Lindsay Kemp. Ma non c’è il gioco irriverente del celebre danzatore inglese: l’ironia si è fatta amara e il travestitismo è riflessione sulla identità, forse un tentativo di non essere solo, di trovare compagni alla propria sofferenza.
Se la figura dell’attore è continuamente accostata a quella di tanti diversi della società, Manfredini rende ancora più dolorosa la sua condizione, preferendo rappresentarlo nella sua vecchiaia. Il primo brano è infatti tratto da Minetti, ritratto di un artista da vecchio, un celebre monologo di Thomas Bernhard dedicato appunto a una delle personalità più straripanti del teatro tedesco. Il Minetti di Manfredini non ha però nessuna grandezza teutonica: si trasforma in un pensionato lombardo, dalla cadenza strascicata, lasciando allo spettatore il dubbio che stia delirando. E non esita ad accostargli l’insopportabile protagonista di Servo di scena di Ron Harwood o il vecchio capocomico del Canto del Cigno di Anton Cechov, addormentatosi nel suo camerino dopo lo spettacolo. In mezzo altri attori, altri fallimenti: la Nina del Gabbiano, sempre di Cechov, che nel quarto atto fa una rassegna fallimentare della sua carriera, poco prima di abbandonare per l’ultima volta il non amato Konstantin (ma sarà lui a farsi saltare le cervella), i protagonisti di Un anno con 13 lune di Rainer Werner Fassbinder (Manfredini è una dolente Elvira, un macellaio di che ha cambiato sesso per amore di un attore, che ha però tradito la sua professione), l’immancabile Testori e un intenso Essere o non essere che mette in chiaro che il discorso è poco autoreferenziale: qui più che di attori, si parla di uomini soli e di dolore.
E se alcune interpretazioni talvolta sfiorano il manierismo, lo spettacolo si anima nei continui cambi scena, nell’abilità virtuosistica con cui Danio Manfredini e Vincenzo del Prete si scambiamo i ruoli, trasformandosi a vista. Basta un abito o una parrucca o una maschera: ed ecco l’attore o il transgender, il servo di scena o la marchetta.
Le maschere di lattice, che ricordano quelle ronconiane di Strano interludio e di Memorie di una cameriera, erano già state usate da Manfredini in Cinema cielo, consentendogli di ricreare il variopinto pubblico di una sala a luci rosse. Qui purtroppo pesano con la loro fissità funerea e modificano troppo la voce, per cui il personaggio viene dato più dalla postura del corpo che dalla parola. Gli preferiamo senza dubbio le scene in cui il volto intenso e dolente dei due attori si fa maschera di se stesso.

Lo spettacolo continua:
Teatro Elfo Puccini – Milano

Corso Buenos Aires 33
fino al 23 novembre 2014

Vocazione
ideazione e regia Danio Manfredini
progetto musicale Danio Manfredini, Cristina Pavarotti, Massimo Neri
con Danio Manfredini, Vincenzo del Prete
luci Lucia Manghi, Luigi Biodi
collaborazione ai video Stefano Muti
produzione La Corte Ospitale