La grande bellezza

Yōrō e Midare, due Nō giapponesi interpretati dalla scuola Hōshō al Teatro dell’Arte di Milano.

Ezra Pound, studiando la letteratura giapponese con William Yeats, era rimasto talmente intrigato dal teatro Nō da tradurne alcuni capolavori. Li pubblicò nel1916, da allora le avanguardie novecentesche non hanno smesso di subirne il fascino. Persino Bertolt Brecht se n’è servito per elaborare la sua concezione di teatro epico. Bob Wilson poi ne ha imitato movimenti e lentezza, mentre Eugenio Barba ha studiato le sue tecniche. E ancora oggi gli spettacoli di ricerca lo citano frequentemente e non sempre a proposito.
È infatti un teatro lontanissimo nel tempo e oscuro nei codici. Risale infatti al XIII secolo (precede il più popolare Kabuki) e si rivolge a un’aristocrazia guerriera, cui offre una visione preziosa e raffinata dell’esistenza, privo com’è di qualsiasi elemento naturalistico: non c’è alcuna scenografia, ma costumi sontuosi e maschere stilizzate, mentre i ruoli femminili sono recitati da attori maschi. Rappresenta storie meravigliose di uomini e dèi in uno spazio vuoto sotto una tettoia retta da quattro colonne che disegnano un quadrato (essenziali per permettere all’interprete di orientarsi quando il viso è coperto da una maschera). L’azione è sempre cantata, mimata e danzata seguendo un codice che cinque scuole a struttura familiare si tramandano di generazione in generazione.
La Triennale di Milano ha invitato al Teatro dell’Arte attori e musicisti della scuola Hōshō per far conoscere il teatro Nō che l’Unesco ha definito un bene immateriale dell’umanità.
La performance è stata preceduta da una presentazione di Carmen Covito (sì l’autrice di La bruttina stagionata, oggi presidente dell’Associazione culturale AsiaTeatro e competente iamatologa), che ha tracciato alcune coordinate per seguire lo spettacolo. Nella prima parte è stata rappresentato Yōrō di Zeami Motokiyo (il più celebre autore di Nō, che gli occidentali con molta approssimazione definiscono lo Shakespeare giapponese), una celebrazione del sake come elisir di lunga vita, in forma di Mai-bayashi, cioè un estratto dell’opera originale, per tradizione agito senza maschera e con un costume neutro. Nella seconda invece è stato eseguito integralmente il Nō Midare, quindi completo di abiti e maschera.
La storia è molto lineare: un giovane mercante, onesto e rispettoso dei suoi genitori (Hiroshi Obinata, l’attore comprimario, detto waki) ascolta in sonno una voce che lo invita a vendere sake nel mercato di Yozu. Il ragazzo ubbidisce e tra i suoi clienti c’è un individuo misterioso che, per quanto beva, non si ubriaca mai: è uno spirito del mare, Shōjō (l’attore principale, detto shite, qui il virtuoso Kazufusa Hōshō), che dona al giovane ragazzo una giara magica, da cui sgorgherà eternamente sake e che renderà il mercante ricco. Una storia semplicissima e a lieto fine (appartiene alla quinta tipologia di Nō, quella con cui si concludeva una giornata di rappresentazioni) e ha ovviamente un significato benaugurale. Lo spettatore giapponese del passato dopo avere assistito a diversi Nō poteva tornarsene a casa con il cuore pacificato. Come sottolineava Carmen Covito, l’opera assolveva una funzione catartica.
Cosa comunica un Nō allo smaliziato spettatore di oggi? I tentativi di comprenderlo attraverso le nostre tradizioni culturali sono destinati al fallimento. Possiamo citare la tragedia greca o il melodramma ottocentesco (per l’importanza della musica e del canto), ma bastano pochi minuti per capire che questi confronti sono assolutamente incongrui. Una diversa visione della vita, pronta a mescolarsi con il sogno secondo le suggestioni del buddismo, ci separa da quest’arte.
Dal teatro di ricerca ci proviene invece qualche strumento per leggere il virtuosismo tecnico dell’attore, che nasce da una particolare presenza scenica ottenuta con un allenamento minuzioso ed infinito. Ma la comprensione nasce dalla bellezza assolutamente mozzafiato del costume, dalla suggestione della maschera (un vero e proprio cimelio, costruito centinaia d’anni fa, ma ancora perfetto, pur non essendo mai stato restaurato), circondata da una parrucca rosso fuoco. L’ingresso dell’essere soprannaturale è così fonte di una genuina meraviglia e in questo stupore sospeso, che accompagna la danza perfetta di Kazufusa Hōshō, risiede il senso di quell’azione teatrale: il Nō aspira a un’idea assoluta della bellezza, fragile e lontana. Noi misuriamo contemporaneamente la nostra distanza, ma anche la necessità, il bisogno quasi doloroso, che abbiamo di essa.
Dioniso abita anche l’impero del Sol Levante.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro dell’Arte
Viale Alemagna 6, Milano
4 luglio 2016

Yōrō (in forma di Mai-bayashi) di Zeami Motokiyo
interprete Kanai Yūsuke

Midare
shite (attore principale) Kazufusa Hōshō
waki (attore comprimario) Hiroshi Obinata
flauto Ryūichi Onodera
kotsuzumi (piccolo tamburo a clessidra) Yoshiaki Iitomi
ōtsuzumi (grande tamburo a clessidra) Takanori Kakihara
taiko (tamburo) Hideki Kajitani
canto Takashi Takeda, Yūsuke Kanai, Daijirō Tatsumi, Takashi Kawase, Hajime Tazaki

in collaborazione con Ambasciata del Giappone in Italia, Ambasciata d’Italia – Tokyo, Public Interest Incorporated Association, Nohgaku Performers’ Association, Public Interest Incorporated Association Hōshōkai

con il patrocinio di Consolato Generale del Giappone a Milano, Istituto Giapponese di Cultura in Roma, Dipartimento di beni Culturali e Ambientali – Università degli studi di Milano
introduzione di Carmen Covito, presidente di AsiaTeatro