Vite infrante

Teatro-Quirino-roma-80x80Al Teatro Quirino, lo Zio Vanja di Čechov nella trasposizione drammaturgica del maestro del cinema Marco Bellocchio.

Anche in Anton Čechov , come in gran parte dei grandi romanzieri russi, troviamo un profondo senso di realtà espresso soprattutto nelle sue declinazioni distruttive. Vanagloria, ambizione, tormento, fatalismo e l’inevitabile sconfitta compongono la tragedia di Zio Vanja, una delle più riuscite manifestazioni drammaturgiche della poetica dello scrittore russo.
In essa, infatti, emerge chiaro ed efficace quel modo di fare teatro che potremmo definire ”d’atmosfera”, capace di descrivere con leggerezza e profondità stati d’animo anche molto forti, pur giocando con essi con equilibrio e concretezza.

Distante da ogni illusoria idealizzazione del reale, così come da ogni happy ending, il teatro di Čechov esibisce gli esiti drammatici della mediocrità umana. Nel caso specifico, Zio Vanja ci mostra quell’inettitudine diffusa che caratterizza tanto i personaggi femminili di Helena e Sonja, costrette a una vita all’ombra del maschio di turno e diversamente incapaci di affermare un’esistenza positiva, quanto quelli maschili, dal professor Aleksandr Serebrijakov, accademico fallito e uomo ‘finito’, al medico-filosofo Michail Astrov, portatore dell’apocalittica visione ecologica di un mondo avviato all’autodistruzione, fino ad arrivare allo stesso Vanja, il cui naufragio è paradossalmente amplificato da una consapevolezza che, invece che alla reazione, lo induce alla lenta autodistruzione tra rimpianti e rimorsi.

Quella di Vanja è la fenomenologia di una vita sprecata, la manifestazione nell’epoca del disincanto del demone dell’harakiri umano, l’ossessivo-compulsiva ricerca di solidità ed eternità destinata inevitabilmente allo scacco («del professore non resterà una pagina, nessuno si ricorderà di lui» dirà Vanja dell’ex adorato mentore).

Un raffinato gioco di sfumature costruito su sentimenti e cognizioni nette ma mai grossolane, un complesso dispositivo esistenziale, quello cechoviano, per il quale Marco Bellocchio sceglie un apparato tradizionale, subordinando l’imponente scenografia e la suggestiva ‘fotografia’ di Giovanni Carluccio all’enfatizzazione dell’impianto narrativo e sminuendo – in questo modo – il potenziale simbolico-visivo dell’allestimento. Un sacrificio che finisce per lasciare non adeguatamente espresse o isolate alcune interessanti intuizioni come, per esempio, la rimozione dell’orologio prima dell’ultima scena, e che decide di affidare i travagli psicologici ed emotivi dei personaggi unicamente all’espressione verbale (eccezion fatta per Sergio Rubini che rende plasticamente le nevrosi del protagonista e per il disarmante Ilja di Marco Trebian).

La regia sembra quasi a disagio con i meccanismi del teatro, si affida timidamente a soluzioni didascaliche e di mestiere (l’uso dei colori dei costumi per descrivere i caratteri, gli ingressi dalla quarta parete per dare un’impressione di dinamismo, una pedissequa esposizione testuale), se non proprio confusa e incapace di utilizzare a dovere il notevole cast a disposizione, le cui prove risultano in gran parte disorganiche, come nel caso della giovanissima Lidiya Liberman fuori luogo nell’interpretare con gaia spensieratezza Helena (la frustrata moglie del professor Aleksandr) e degli esperti Michele Placido, monocorde nel restituire l’addolorato personaggio del professor Serebrijakov, e Pier Giorgio Bellocchio, la cui recitazione urlata sembra a dir poco disomogenea. Nulla traspare del fascino attribuito al medico Astrov, niente della sua capacità di ammaliare le donne sulla scena, i suoi movimenti bruschi, il tono quasi violento e un certo estremismo arrogante nell’esporre la preoccupazione per la natura, rendono il medico burbero e rassegnato, incline all’ira, insomma un personaggio poco piacevole da veder comparire sulla scena.

Zio Vanja mette in luce le debolezze di ogni età: l’ingenuità estenuante della gioventù di Sonja, le lamentele egocentriche della vecchiaia del professore, la patetica ricerca di una seconda adolescenza della mezza età di Vanja. Ogni personaggio è in conflitto con il proprio tempo, ciascuno alla ricerca di una vita che non ha o che non ha avuto, alla rincorsa di un’esistenza imprendibile perché fatta della sostanza impalpabile propria dei sogni. Neppure nei giovani, questa aspirazione prende i colori della speranza.
Il finale non può che sottolineare la tendenza al tragico e alla rassegnazione di personaggi che hanno rinunciato a trovare la felicità in questa vita e che attendono, stanchi ma fiduciosi, il giorno in cui si riposeranno.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Quirino

via delle Vergini, 7, Roma

Federica Vincenti e Michele Placido per GOLDENART Production presentano
ZIO VANJA
di Anton Čechov
adattamento e regia Marco Bellocchio
con Sergio Rubini, Michele Placido, Pier Giorgio Bellocchio, Anna Della Rosa, Lidiya Liberman, Bruno Cariello, Maria Lovetti, Marco Trebian
con la partecipazione straordinaria di Lucia Ragni
musiche Carlo Crivelli
scene e disegno luci Giovanni Carluccio
costumi Daria Calvelli
aiuto regia Stefania De Santis