Ascesa e declino da Weimar al sorgere del nazismo

In Germania anni ‘20 Sepe dà posto alle visioni quasi oniriche di una Germania in disfacimento, la cui polvere sarà concime per un tragico revanscismo. La crisi economica, seguita alla sconfitta nella Grande Guerra, fa sorgere fantasmi angosciosi che trovano forma nello Sconosciuto, una figura dipinta oscura e a cui il cinema espressionista offrirà dignità di rappresentazione: il serial killer, la prostituta, il bambino innocente, l’alchimista “cattivo” e capace di sedurre al male.

La “funambolica capacità di illusionista”, come la definì il critico teatrale Franco Quadri, si mostra in un gioco caleidoscopico, in cui gli attori sono sagome che escono dall’ombra per mostrarsi nel cono di luce della scena. Interpretano la puttana, il fuggiasco ebreo, il travestito, il cliente, il giovane soldato imbevuto di parole d’ordine. La musica, quando non è motivo da music hall, fa da strato sonoramente cupo ad una mente che non riesce più a liberarsi di un pensiero fisso di morte.

È il grido a fermare la musica, quello della vittima assalita di notte, o di un soldato che parla un tedesco caldo, sonoro, il tedesco dei filosofi, da Hegel a Kant passando per Schopenhauer. Fa pensare a una lingua tedesca capace di creare il concetto, di misurarsi con l’impossibile della parola, tutt’altro dall’idioma buono per dare ordini o – come disse Carlo V – per comunicare coi cavalli.

Lo spettacolo di fatto è un lungo commento sonoro in cui la parlata tedesca si interfaccerà alla musica, quella di Kurt Weil per esempio, o alle canzonette da cabaret. I personaggi lo ammettono: «Non riusciamo a leccarci le ferite senza infliggercene altre». La lingua vorrebbe consolare, ma non riesce a far altro che evocare lo stesso fantasma. Lo spettatore che non conosce il tedesco, né i riferimenti musicali, è avvolto da un capogiro ipnotico. È come stare su una giostra in cui ciò che si avverte è una sonora vertigine.

Un insetto morde, non lascia in pace l’uomo avvolto dalla penombra, il quale si lascia andare a una “danza” per scrollarsi di dosso il fastidio. Ma si tratta davvero di un insetto? Il ronzio è nella sua testa? O forse è l’uomo a essere un insetto, come in una metamorfosi kafkiana? Si odono macchine in lontananza, il cui rombo a svanire lascia la scena solitaria. La Repubblica di Weimar ha dato la libertà a tutti, anche ai suoi nemici, generando così il paradosso del regime a venire che, chiudendo la porta alla libertà, quindi all’alterità, getta esso stesso le basi della propria inevitabile caduta.

Per lo spettatore si pone il problema di cercare un filo di parola da tirare, e non trovarlo. Si può afferrare il filo di un suono, ma questo rotola, si intreccia, generando un tessuto armonico a volte leggero, altre volte inquieto. L’esperienza estetica è quella della perdita: cullati dal suono, ipnoticamente si è già fuori dal senso, dall’accadere. Si è piuttosto “accaduti” insieme ai personaggi, incapaci di spiegare, di trovare ragioni. È possibile solo costruirsi vie di fuga, e dove queste siano impossibili, ballare, continuare sempre a ballare.

L’arte, chiamata a interpretare le paure dei tedeschi, rischia di essere tacciata come sovversiva se si addentra dentro l’ombra, se non si ferma alla “bella forma”. La luna che langue nel cielo è un diafano riflettore per i mostri che mangiano l’uomo, lo tagliano a pezzi, come in un gioco di falso illusionismo in cui il mago-alchimista non finge di tagliare la modella, la taglia davvero, consistendo in questo il suo spettacolo.

I personaggi rinunciano da subito a soffrire, a piangere, a spiegare, a riparare e ripararsi, per esercitare una contropotenza di ironia, di riso grottesco, lo stesso riso che prendeva Kafka alla lettura pubblica dei suoi testi. Si abdica alla riparazione civile, alla contestazione sociale, per consegnarsi alle potenze della natura che – sotto forma di vento storico – ci sottomettono, ci rendono burattini grotteschi: in Germania anni ‘20, i personaggi camminano in gruppo per passettini brevi, come in una colonna di galeotti incatenati per le caviglie.

Questi “burattini” seviziano, uccidono, fanno l’amore. Abbracciano e poi respingono, cambiano sesso, gettandosi nell’orgia di un godimento mortale. Il tempo si contrae nell’attimo; si tratta di entrarci dentro, giacché fuori non si può vivere. Il prezzo da pagare è diventare golem (Der Golem di Enrik Galeen e Paul Wagener, 1915) che compiono gesti sempre uguali, che entrano ed escono da una colonna sonora da radio commerciale come in Tango glaciale di Mario Martone (autore influenzato da Sepe), o che si infilano nel testo sociale per abitarlo fuori tempo massimo, a un rallenty così compassato che i personaggi possono perfino uscire non visti dalla tragedia e non tornarvi più.

È il caso degli ebrei tedeschi che, allo scoppio della guerra nel 1939, per metà fugge. Per colmo di ironia, si tratta degli artefici più nobili dell’intellighenzia tedesca, vale a dire la spina dorsale della Germania, attiva in tutti i campi sociali, dall’economia alla letteratura, passando per la scienza. I roghi dei libri di autori ebrei il 10 maggio 1933, è una ferita inferta al corpo stesso della Germania, in cui gli ebrei erano pianamente inseriti, sentendosi tedeschi a tutti gli effetti. A suggello del harakiri, Goebbels dirà: «Siamo alla resa dei conti con gli intellettuali ebrei, questi parassiti che riempiono le eleganti strade delle nostre metropoli e le biblioteche della loro spazzatura».

Ma è soprattutto Sepe – cimentatosi esteticamente con le potenze oscure della Storia – a darsi al teatro come potenza stessa, di fronte al quale resistere è vano. Si tratta solo di lasciarsi portar via dalle suggestioni sonore, dalla musica perennemente presente, incombente come un destino che pure sostiene, fa da trama al corpo vocale dell’attore. Questo vi depone la propria voce come un equilibrista su una corda tesa. La Germania del primo dopoguerra ha sperimentato la frammentazione più estrema, senza che Weimar potesse integrare i disagi drammatici della crisi economica. Questa stava covando un’angoscia collettiva pronta a essere assunta dal braccio nazista, teso come un’arroganza di direzione, di marcia, di esondazione etnica. Germania anni ‘20 è la danza di un declino, di un desiderio di morte, di una chiusura psicotica.

Il segreto che oggi ci pone davanti Sepe è la trasformazione spettrale della Storia. In fondo la caduta di un popolo si regge sempre sulla colpevole incapacità di opporsi a un destino, malgrado Weimar avesse prodotto intellettuali del calibro di Brecht, Murnau, Lang, Benjamin, Alban Berg, Max Ernst, per citarne solo alcuni. La verità desolante è che arte e filosofia non sono servite a evitare il baratro, solo a ballarlo, per accompagnare il rapido movimento a franare di un paese.

Sarebbe fin troppo facile fare lettura sociale di uno spettacolo che allude all’autoritarismo germanico di ieri, proprio oggi che l’Italia manda segnali pericolosamente simili. Il regista vuole dirci piuttosto che, anche oggi, niente ci impedirà di cadere, come di tornare in piedi ed evitare il baratro. Si tratta di vivere ogni momento come se fosse l’ultimo, sia nella caduta che nella risalita. Non abbiamo scelta. Noi amanti del grande teatro invece, sì, ne abbiamo una: possiamo andare a vedere Germania anni ‘20, non una, ma più volte. Questo abbiamo la fortuna di poterlo fare.

Leggi la prima parte: Germania anni ’20. Costruzione di una poetica teatrale

Lo spettacolo è in scena
Teatro La Comunità

via Giggi Zanazzo 1 (p.zza Sonnino – Trastevere)
da giovedì 5 a domenica 15 dicembre 2019
da martedì a sabato ore 21 – domenica ore 18

Germania anni ‘20
di Giancarlo Sepe
con Antonio Balbi, Sonia Bertin, Jacopo Carta, Chiara Felici, Giuseppe Claudio Insalaco, Camilla Martini, Riccardo Pieretti, Federica Stefanelli, Guido Targetti, Maria Luisa Zaltron
scene Alessandro Ciccone
costumi Lucia Mariani
musiche Davide Mastrogiovanni a cura di Harmonia Team
disegno luci Guido Pizzuti