Una lacrima di miele ed un sorso di cicuta

Va in scena al al Pim Off, A nome tuo, un sottile invito alla riflessione su temi esistenziali tanto radicali quanto laceranti.

Personaggio spiazzante, questa Miele. Un nome di fantasia perché Miele, in verità, è il “nickname” utilizzato da Ilaria, una giovane ricercatrice, quando somministra clandestinamente l’eutanasia.
Che sia emotivamente asettica in questa sua “prestazione” ce lo dicono anche i tecnicismi usati, l’anonimato e il contegno/distaccato empatico ostantato: l’intervento con i ferri del mestiere, mentre indossa i guanti in lattice e, dicendo «non tocchi più quei bicchieri», intima al marito della donna che sta per morire di verificare liberatoria e somma pattuita; la preparazione della miscela di farmaci con la beffarda presenza di quel tetracarbitone usato in ambito veterinario per soffocare le sofferenze degli animali ma precluso agli uomini; l’assunzione della bibita preferita dopo aver bevuto, tutto d’un fiato, il cocktail letale.
Un personaggio dal quadro psicologico assolutamente non lineare che, infatti, non riesce a celare mai del tutto dietro la propria maschera di dispensatrice di “dolce morte” i dettagli di una delicatezza intima e disarmante fatta di lacrime a stento trattenute, sorrisi abbozzati e sforzati, foto alle pareti o sul comodino che le parlano di quelle stesse persone nei loro giorni felici. E di una vita privata che la vede donna sola che ha per amante un quarantenne sposato e immaturo e che, non appena le riesce, si occupa del vecchio padre, a sua volta badante – quando e come può – del proprio vetusto genitore. Una vita che si complica all’arrivo di una telefonata letteralmente cruciale e che la porta a conoscere il bisbetico e volitivo pensionato Grimaldi. Sarà lui a porre Miele/Ilaria di fronte a una richiesta diversa dal solito, cui seguirà prima un iniziale rifiuto («Non ammazzo i depressi, io!») e poi una assidua frequentazione.
Tra i due nasce così un incontro/scontro che sa di epico, con lui che cita Virgilio e Cicerone nell’imperturbabile convinzione che «Nolentem fata trahunt volentem ducunt» (Il destino trascina i riottosi, guida i volitivi) mentre lei che sembra sapere benissimo chi abbia il diritto di porre fine alle proprie sofferenze e chi no.
Uno dialogo che trasmuta inevitabilmente in una crisi che lascia aperto il finale. Le uniche certezze sembrano paradossalmente essere quelle dei flussi di coscienza della protagonista nelle estenuanti nuotate liberatorie, mentre ripensa al senso del suo agire e si “scopre” suggestionata dalla vicenda della malattia terminale della madre (cui il tuo del titolo richiama), morta dolorosamente di tumore quando Ilaria/Miele era solo una ragazzina, e dai ricordi di un’infanzia felice e perduta, condensata nell’immagine della scritta “Viva la vita” calcata dalle orme dei genitori sulla neve.

Dal punto di vista della resa scenica, la forza del testo sembra a tratti patire una frammentarietà mista a eccessiva lunghezza che infine rischia di disperdere l’incisività della narrazione. La protagonista è interpretata da una Cinzia Spanò più convincente quando gioca sulla monocorde tonalità della somministratrice della dolce morte, in modo particolare in quelle scene della preparazione filtrate dalla filigrana di una parete semitrasparente e allusive del pudore e dall’ asetticità del ruolo, meno in quelle in cui avremmo voluto sentire esplodere il dramma personale di una esistenza disperata. Su altre corde ha saputo giocare Dondi, interprete del caparbio e disarmante ingegnere in pensione: dal pacato e stoico distacco di chi sa il fatto suo, alla vivacità dialettica di chi non intende lasciarsi stringere all’angolo; dall’arguzia con cui si guadagna la complicità della giovane, alla disincantata evidenza della propria “inutilità”. Un testo ostico sia per la tematica (la liceità morale del suicidio assistito, la sua depenalizzazione: «Il solo caso in cui l’assistere a qualcosa di legale venga considerato illegale…») che per l’indotto argomentativo. Ecco perché, forse, una scelta registica meno algida e più emotiva avrebbe aiutato a stemperarne una a volte estraniante accademicità.

Lo spettacolo è andato in scena
PiM Spazio Scenico
Via Selvanesco, 75 – 20142 Milano
dall’11 al 13 gennaio 2014

Fino a lunedì 13 gennaio 2014
ore 20.45 dom 12 pomeridiana ore 16.45 + ore 20.45 lun 13 ore 20.45

A nome tuo
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Mauro Covacich (Giulio Einaudi Editore)
adattamento Cinzia Spanò
regia di Roberto Recchia
con Cinzia Spanò e Ruggero Dondi
scenografia Romeo Liccardo
luci Mario Pastore