Tra Faenza e Forlì, la Biennale di teatro e arte performativa per ragazzi di Accademia Perduta/Romagna Teatri chiude la festa e dà appuntamento alla prossima edizione.

Pinocchio è tra i testi italiani della letteratura per l’infanzia più letti e conosciuti al mondo. Traduzioni in quasi tutte le lingue del mondo, svariate e illustri trasposizioni cinematografiche, l’album capolavoro Burattino senza fili del genio di Edoardo Bennato, addirittura la dedica dell’Asteroide 12927. Siamo, insomma, di fronte a un fenomeno di dimensione planetaria, a un personaggio di fronte al quale pare arduo avere ancora qualcosa di originale da dire, ma che, allo stesso tempo, ben rappresenta il caso di un classico contemporaneo, vale di un testo che continuamente riesce a riproporsi attuale e in relazione attiva con i nostri tempi.

Sul suo contenuto di verità, il giudizio è ovviamente controverso. Forma di narrativa per ragazzi sui cui la letteratura di formazione europea del XIX secolo investì menti e risorse per cercare di plasmare le nuove coscienze nazionali e patriottiche, particolarmente evidente fu il caso italiano, nazione da poco giunta all’unità territoriale, ma non spirituale e alla quale Collodi intendeva offrire un inedito modello con cui le giovani generazioni potessero confrontarsi e poi identificarsi.

Senza entrare nel merito di un dibattito imperituro tra gli specialisti, si possono individuare almeno due possibili e antitetiche letture de Le avventure di Pinocchio: da un lato, quella che vede nel racconto un sorta di inno pedagogico alla coercizione e all’omologazione dell’individuo, una proposta educativa che, attraverso il terrore e la minaccia, promuove l’idea che si possa essere amati solo se conformi alle regole; dall’altro, abbiamo la posizione di chi, non misconoscendo il fatto che l’opera si innestava in un tessuto socio-culturale arretrato, vi riconosce la lodevole e necessaria iniziativa di sostegno a una nuova generazione di lettori (dunque di futuri cittadini istruiti) per il progresso civile e morale di un’Italia appena nata.

Marcello Chiarenza e Claudio Casadio decidono di non prendere posizione sull’argomento e si limitano a una sontuosa restituzione letterale di un testo convertito in scena grazie allo splendido utilizzo di uno strumento dall’alto valore simbolico e perfettamente incastonato nello spirito collodiano. Ecco che « la storia sguscia fuori dalle pagine dei libri per atterrare direttamente sulle tavole del palcoscenico», mentre la solidissima prova con cui Maurizio Casali e Mariolina Coppola «giocano, recitano, si scambiano i ruoli e danno vita ai tanti personaggi della storia che consigliano, che ingannano, che spaventano, che portano sulla cattiva strada» permette di dare forma a «un vero e proprio inno alla meraviglia del libro, della pagina stampata».

Decisamente più superficiale è il Peter Pan di Tonio De Nitto, il quale si accontenta di riproporre la celebre favola del bambino che non voleva crescere edulcorata da ogni elemento di possibile introspezione per i bambini. Assecondando una interpretazione esclusivamente empatica del racconto, questo Peter Pan rispetta la vulgata che lo vuole dispettoso nei confronti di Capitan Uncino, affettuoso con Wendy e giocherellone con Tinker Bell, che si diverte a curiosare dalle finestre di Kensington, perde la propria ombra, vola a Neverland e compie il lieto fine andando a trovare l’ormai anziana amica. Peccato che Peter Pan sia una storia di ben altre ombre e che proporlo in termini talmente semplicistici non risulti essere una operazione apprezzabile né dal punto di vista filologico, né da quello artistico, se non fosse per il bell’effetto multimediale con cui i protagonisti volano per i cieli e la convincente prova di Francesca De Pasquale nei panni della fatina.

Sulla stessa linea si colloca Capogiro. Anche in questo caso il punto di partenza è di alta caratura perché le Briciole si ispirano ai lavori della compianta Gabriela Ferrario, in arte Iela Mari, e a illustrazioni per l’infanzia da cui veniva stornata la componente verbale e testuale a favore di un linguaggio potenzialmente totipotente composto da forme e colori neutri.

Nonostante il collegamento con la dimensione pre e paraverbale dei bambini sia evidente e suggestiva, Beatrice Baruffini e Agnese Scotti la tradiscono innestando nello sviluppo scenico un continuo accompagnamento verbale di spiegazione degli accadimenti per come si stanno svolgendo sul palco e di cui è protagonista una palla partorita dalla performer. Impossibile, in questo modo, sfuggire alle maglie del linguaggio figurativo e alle relative associazioni eterodirette della narrazione.

Il Minotauro di Gaetano Colella con Roberto Anglisani è il racconto iperdescrittivo della famosa vicenda dell’essere metà uomo e metà toro – figlio della bestia e della regina di Creta, dunque fratello di Arianna – ispirato anche a Il Minotauro di Dürrenmatt e Asterione di Borges.

Dalle parole di Anglisani, che rimane sempre seduto frontalmente al pubblico, mentre alle sue spalle scorrono immagini di arte cretese, non prende forma l’auspicata atmosfera rarefatta e laconica. Già stucchevole nella facile alternanza drammaturgica di prosa e poesia, l’«intento di affrontare il tema della diversità» – senza «restringere questo tema ad una diversità specifica», ma per «parlare della diversità in una forma archetipica» – naufraga fragorosamente nel momento in cui il giovane Icaro, alla morte dell’amico mostro, afferma che «non era poi diverso da noi» (tradendo un evitabile afflato identitario) per poi diventare insostenibile sulle parole di chiusura con cui manifesta una visione totalmente unidirezionale – altro che archetipica – dell’Altro («ti voglio bene, amico mio»).

Meno audace, ma ben più credibile, è invece Mondo, racconto ecologico di Giuseppe Di Bello e con Marco Continanza. Protagonista è «un ragazzino tenero, semplice di spirito, puro, appassionato di ornitologia, emarginato e deriso dai compagni per i suoi interessi e per la sua visione delle cose, che passa parecchio tempo da solo, a cavalcioni di un ramo di un grande tiglio che custodisce un segreto commovente». La svolta accade quando incontra Margherita, la futura moglie, «una ragazzina che condivide le sue scelte e che con le sue conoscenze sugli alberi arricchirà l’esperienza del ragazzo». La semplicità e la riconoscibilità della tematica non scade mai nel didascalico grazie all’intrecciata progressione cronologica con cui Raimondo adulto (il titolo è il diminutivo del suo nome) si racconta e ricostruisce la propria infanzia. La bella scenografia composta da un albergo (vale a dire un albero di legno che il protagonista costruisce in attesa che alberi veri crescano e diano una casa agli uccelli) completa un allestimento che paga solamente la totale assenza di relazione e improvvisazione con un giovane pubblico apparso in alcuni momenti particolarmente coinvolto e desideroso di interagire.

Chiude questa edizione della Biennale, l’ultima creazione di Arca Azzurra e del virtuoso sodalizio tra Francesco Niccolini e Luigi D’Elia. Moby Dick è un testo capitale della cultura occidentale contemporanea. Denso, crudo, tragico e bellissimo, il capolavoro di Melville è uno spaccato terrificante dell’impotenza dell’essere umano e, nello specifico, del suo genere maschile. Indegno di redenzione, inebriato dalla sete di vendetta, intriso di odio e orgoglio, Acahab è l’alter ego di Ulisse. Antieroe, non cerca nulla di positivo, dal male non nasce nulla di buono, la morte e la sconfitta sono il destino inevitabile di un uomo senza alcuna grazia e travolto dall’angoscia. In Moby Dick la disperazione non rappresenta l’esito di una visione pessimistica, ma il senso stesso del realismo con cui si affronta e si attraversano le tenebre della vita.

Non c’è scampo o aiuto possibile, «Dio è morto e l’uomo è solo in questo abisso» (Cyrano, Guccini), Melville lo sa benissimo perché lo ha vissuto sulla propria pelle e attinge a piene mani dalla propria vicenda biografica. Ma i luoghi di Moby Dick sono circondati da un’aura metafisica, sono paesaggi metaforici della miseria morale e umana, mentre la balena bianca è il limite invalicabile contro ogni hybris.

Nonostante tra le pieghe degli attraversamenti psicologici sembrino celarsi significative potenzialità di sviluppo dell’allestimento e alcuni tagli possano rendere più efficace la complessità dell’operazione, Niccolini sussume una drammaturgia che, pur non cedendo mai alla prolissità, non perde alcun dettaglio del contesto in cui si svolge il romanzo. La parola, ricercata e priva di facili commozioni, dà forma a una narrazione che implode di tragicità, dolore e connotazioni psicologiche nei vari singoli personaggi, personaggi nei confronti dei quali D’Elia si mostra camaleontico e capace di restituirne esaustivamente sfumature posturali e verbali, anche se alcuni inciampi fonici rendano alcune espressioni di difficile comprensione. L’equipaggio del Pequod, spesso trascurato nelle varie trasposizioni teatrali, è in questo caso assoluto protagonista. Non lo è solamente il superstite Ismaele (a cui sono affidati il celebre incipit del romanzo e l’onere di narrarlo), ma anche il buon Queequeg, il cauto Starbuck, il ridente Stubb e tutti gli altri, fino al profetico Fedallah.

Al centro una spettacolare scenografia, una mastodontica e riuscitissima trasfigurazione visiva del vascello assume le fattezze per sublimazione e contrarietà di una balena rovesciata. Su di essa D’Elia si muove cauto e rabbioso, oscilla dalla felicità di chi libero solca i mari al terrore di chi sa di andare incontro all’inevitabile destino. Con passo leggero e mano pesante, cercando ritmi precisi e forme sicure di attraversamento, stremato da una prova d’attore di eroico furore, da essa scende dopo aver credibilmente inscenato il dramma della vita senza mai scadere nella trappola dell’immedesimazione.

Un ottimo commiato per questa edizione di Colpi di scena che si conferma vetrina capace, anche in questi tempi bui, di valorizzare attraverso un’organizzazione eccellente gli inequivocabili segni di vitalità del teatro per giovani e ragazzi.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno di Colpi di Scena 2020
location varie

venerdì 25 settembre 2020

ore 09:30
Teatro Testori, Forlì
ACCADEMIA PERDUTA/ROMAGNA TEATRI
Pinocchio
di Marcello Chiarenza
con Maurizio Casali e Mariolina Coppola
musiche originali Carlo Cialdo Capelli
regia Claudio Casadio
Età 3 – 8 anni

ore 11:30
Teatro Masini, Faenza
FACTORY COMPAGNIA TRANSADRIATICA
Peter Pan
di Tonio De Nitto
collaborazione drammaturgica Riccardo Spagnulo
con Ilaria Carlucci, Francesca De Pasquale, Luca Pastore, Fabio Tinella
regia Tonio De Nitto
coreografie Barbara Toma
musiche Paolo Coletta
PRIMA NAZIONALE
Età 7+

ore 14:30
Teatro Europa, Faenza
TEATRO DELLE BRICIOLE – SOLARES FONDAZIONE DELLE ARTI
Capogiro
In tondo a una palla
di Beatrice Baruffini e Agnese Scotti
con Agnese Scotti
regia Beatrice Baruffin
Età 2-5 anni

ore 16:15
Teatro San Luigi, Forlì
ROBERTO ANGLISANI
Il Minotauro
di Gaetano Colella
con Roberto Anglisani
musiche Mirto Baliani
regia Maria Maglietta
produzione CSS Teatro stabile di innovazione FVG
Età 10+

ore 18:00
Teatro Il Piccolo, Forlì
COMPAGNIA ANFITEATRO
Mondo
testo e regia Giuseppe Di Bello
con Marco Continanza
scenografia e grafica Bruno Freddi e Ofelia Di Bello
produzione Compagnia Anfiteatro
Progetto Piattaforma di Unoteatro
PRIMA NAZIONALE
Età 6 – 11 anni

ore 19:30
Teatro Diego Fabbri, Forlì
LUGI D’ELIA E FRANCESCO NICCOLINI / ARCA AZZURRA
Moby Dick
di Francesco Niccolini
da Herman Melville
regia Emanuele Gamba
con Luigi D’Elia
musiche originali Giorgio Albiani
produzione Arca Azzurra Produzioni
ANTEPRIMA NAZIONALE
Età 13+ e adulti