Polaroid dall’inferno

Danio Manfredini protagonista unico di un cabaret tragico sul palcoscenico del Franco Parenti.

Scusate il paragone azzardato ma immaginate Carmelo Bene mentre sproloquia le sue pillole di saggezza: “Il pubblico non va a teatro perché cerca la propria crisi. Non si presterebbe mai a una perversione virtuale. A un gioco di specchi con la scena. Sarebbe catastrofico. L’indomani non andrebbe più a lavorare. Mezz’ora dopo si suiciderebbe. Un teatro che non fa morti, che non sollecita crimini, delitti, sabotaggi, non può essere teatro, è spettacolo. Piccola fiera della vanità”. E adesso sovrapponete Antonio Albanese che, di sketch in sketch – da Cetto Laqualunque al Ministro della Paura – tratteggia l’italietta cialtrona e un po’ dispotica che ci circonda. Shakerate con un bianco latte che imbratta di squallore fondali e palco, abiti e parrucca e vi capiterà di bere uno tra i cocktail più angoscianti della stagione: i brevi sketch devastati e devastanti interpretati da Danio Manfredini, che sintetizzano in scabre battute, la desolazione dei reclusi, dei “matti”, dei vecchi negli ospizi, dei barboni, dei migranti che venderebbero la sorella per 10.000 lire.
Un pugno che arriva direttamente allo stomaco, un cabaret tragico: senza strutture a reggere la costruzione, con un Manfredini che si immedesima fino a vivere – più che a rivivere – i suoi personaggi.

E noi, spettatori muti come il manichino in scena, a contemplare immobili quella tragedia nella quale non possiamo né vogliamo specchiarci. Meglio essere il figlio che, al di là del filo, può lasciare andare la segreteria telefonica senza rispondere alla madre, al padre, al vecchio – che un giorno saremo ma che ora possiamo fuggire.

Unico momento di poesia, squarcio di nitore e bellezza sconvolgente, lo sketch dell’ospizio, dove per un attimo – al di là dell’orrore – si intravede l’universo delle piccole cose: il libro di preghiere, la foto, il vecchio mangianastri: poveri oggetti salvati dallo sfascio di un’esistenza che non è più propria, conservati su quel comodino di ferro che – Basaglia insegna – è l’ultima traccia dell’appartenenza e della presenza a se stessi, nell’omologazione del manicomio, della galera, dell’ospizio.

Ancora due sere (oggi e domani) per bere un calice amaro.

Lo spettacolo continua:
Teatro Franco Parenti
via Pier Lombardo, 14 – Milano

Al presente
testi di Danio Manfredini, Alberto Giacometti, Albert Camus, Mariangela Gualtieri
con Danio Manfredini
collaborazione al progetto di Andrea Mazza, Luisella Del Mar