Resistere ed esistere

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Ventotto anni, diciotto regie, due anni di “travaglio” e un testo pubblicato. Ecco i numeri di Alberto Oliva.

Ce li racconta tutti ne L’odore del legno e la fatica dei passi. Resto in Italia e faccio teatro, testo che non si fatica a definire partigiano. Con una scrittura scorrevole e mai superficiale, Oliva sprona i giovani d’oggi a non abbandonare le proprie passioni, a non arrendersi, diventando frustrati automi fagocitati dalla sfiducia e dall’atarassia. Raccontandoci le avversità, le fatiche, le delusioni che spesso incontra chi vuole fare teatro in Italia, questo giovane regista testimonia l’esperienza di persona matura attraverso l’entusiasmo di chi s’innamora e si entusiasma per i progetti più disparati.
Quello che emerge con deflagrante vivacità è la bellezza della fatica dopo la battaglia, la soddisfazione di vincere nonostante le avversità burocratiche e la gioia di vedere un pubblico che applaude là dove ce n’è bisogno. Perché chi rimane in Italia non è solo un “mammone” come spesso vogliono farci credere, ma, tante volte, qualcuno che crede nella necessità di smuovere le coscienze dove c’è il pantano, dove lo stimolo culturale non è cullato dal sistema ma piuttosto va sudato.
Ecco cosa è venuto fuori chiacchierando in una bella serata di novembre che sembra non voler abbandonare del tutto il clima estivo.

La genesi: perché e come è nato il libro?
Alberto Oliva: «Io il libro non lo avrei mai scritto, ma di fronte all’entusiasmo di Elena Petrassi, che conobbi in occasione dello spettacolo Il venditore di sigari – nuovamente al Litta a gennaio, ndr – mi sono messo in gioco. Il progetto iniziale prevede una collana di libri su giovani che fanno mestieri particolari e che sono rimasti in Italia, e per ora l’unica storia pubblicata è la mia. L’entusiasmo iniziale era a mille e infatti ho subito raccolto materiale di ogni genere, ma all’atto pratico della scrittura mi sono bloccato e l’ho mollato, rimuginando per molto tempo. Poi, la scintilla che ha sbloccato tutto, la libbra di carne: ovvero il malore e l’operazione che ho subìto, della quale parlo ad inizio libro. Continuavo a raccontare l’accaduto a chiunque mi fosse vicino e dopo aver rodato il racconto per una trentina di volte, nel sentirmi sempre dire “devi scriverla, è un monologo perfetto!” in un giorno ho scritto di getto questa storia e mi sono reso conto che avevo già 40 pagine fatte. A quel punto valeva la pena andare avanti».

Dal suo libro emergono la fatica e la sofferenza come aspetti importanti se valorizzati come punti di svolta. Che ce lo dica un ragazzo di 28 anni e non solo Steve Jobs non è poco!
A.O: «Se c’è la passione la difficoltà non esiste: sai che se vorrai arrivare da un punto A ad un punto B non potrai farlo secondo un percorso lineare, devi preventivare ostacoli e fatiche. Ma se è qualcosa che fai perché ti piace davvero, sono solo opportunità per crescere. Io vengo da una famiglia di “non addetti al lavoro” e senza mai appoggi facilitanti la gavetta è stata fondamentale. Però alle tante difficoltà hanno fatto da contraltare molte persone preziose (Bosisio piuttosto che Voghera o la stessa Elena) che mi hanno sostenuto e dato motivazione. Insieme alle circostanze fortunate, ma come dico sempre, anche la fortuna non cade dal cielo, bisogna sapersela costruire.
I lavori migliori poi, sono nati proprio da testi che non conoscevo o ai quali non ero minimamente interessato in partenza: il bello è stato superare i miei pregiudizi e trovare la chiave che rendesse quel lavoro una sfida e un’opportunità di crescita».

«Resto in Italia e faccio il regista». In barba ai tanti che dicono di andarsene all’estero perché in Italia si è “sprecati”.
A.O:«Purtroppo si moltiplicano i casi in cui cercano di inibire i giovani che hanno qualcosa da dire. Anche ai concorsi premiano spesso dei prodotti grezzi proprio perché i grandi vecchi e i critici vogliono arrogarsi il primato di aver scoperto quel giovane piuttosto che il diritto di spiegargli come portare avanti i propri progetti. Il meccanismo di molti contesti, tra i quali premi e festival, è ormai viziato, impantanato: dobbiamo uccidere i nostri padri, ma sono padri ingombranti, che dopo essersi conquistati le poltrone non vogliono abbandonarle. Come evidenziavo nello spettacolo In non celeste sonno (ispirato a Uomini e no di Vittorini, ndr), noi giovani d’oggi abbiamo molte affinità con quelli del secondo dopo guerra: l’aggravante è che dobbiamo combattere contro nemici più subdoli e non chiaramente visibili e l’unico modo che abbiamo per farlo è abbandonando la diffidenza e il disfattismo che soffoca la nostra generazione. È troppo facile fare teatro dove tutto va già bene e c’è fermento culturale: bisogna restare e farlo qui, dove c’è la crisi ed è necessario smuovere le coscienze».

Spesso emerge nel suo libro di come sia fondamentale fare rete tra realtà emergenti ma non necessariamente giovani. Come possiamo uscire dall’immobilismo che molti criticano alla nostra generazione?
A.O:«Purtroppo faccio più fatica a fare rete con i giovani proprio per il motivo di cui sopra: c’è un atteggiamento rinunciatario e disfattista che non permette di collaborare serenamente; spesso c’è sotto la paura che anche il coetaneo ti voglia fregare o usare per fini utilitaristici. Così come c’è il pregiudizio che se ottieni un complimento, una critica positiva o la stima di qualche personalità ciò avviene perché sei raccomandato, mentre io non ho mai avuto le spalle parate. Quello che ci rovina, in ogni caso, è la generalizzazione: non tutti i grandi vecchi sono disonesti, non tutti i giovani valenti sono raccomandati».

L’odore del legno e la fatica dei passi. Resto in Italia e faccio teatro.
Di Alberto Oliva
Prefazione di Giorgio Galli
Atì editore

L’autore presenterà il libro a
Milano, Spazio Tadini, 14 novembre, ore 20.30
Brescia, Museo Nazionale della Fotografia, 22 novembre, ore 18.30