Io, non io, neanche lei

«Alice è l’incontro di due percorsi formativi finanziati da Associazione Amici Dei Bimbi Onlus e condotti da Dynamis presso il Teatro Vascello e il reparto di Neuropsichiatria dell’Ospedale Bambino Gesù», ma sulla scena tutto questo non si vede, perché sul palco c’è solo un gruppo di adolescenti («o poco più») intenti a fare teatro. Attraverso i due testi più famosi di Lewis Carroll, la realtà si piega alle leggi distorte del mondo al di là dello specchio, costringendo il pubblico a guardarla da un’altra prospettiva che, distorta o meno, risulta comunque un ulteriore e necessario termine di paragone per rapportarsi al mondo. In occasione del festival Dominio Pubblico – la città agli under25, la compagnia Dynamis ripropone il proprio lavoro sull’individuo, fornendo ancora una volta ai ragazzi uno strumento prezioso per poter risvegliare quella dimensione dello spirito «che non si è distrutta, ma solo assopita».

Alice è, in primis, un lavoro sperimentale incentrato sulla maschera: «Nessuno si comporta nello stesso modo con un genitore, un professore, un vecchio amico, un amante, un collega o il proprio capo. Nessuno vorrebbe guardare a due di queste figure con gli stessi occhi. Ognuna di queste relazioni implica delle regole comportamentali che abbiamo stabilito e che non siamo disposti a violare. Il punto è che invece ci viene richiesta, anzi sempre più imposta, trasparenza. Il meccanismo è ricattatorio e lavora sulle nostre maschere nel tentativo tirannico di abolirle. E l’interazione con le tecnologie digitali, i social network in particolare, amplifica questa richiesta. Voglio sapere il tuo vero nome, il tuo vero cognome, a cosa stai pensando, dove sei e con chi. Se non me lo dici, se non sei pronto a dirlo a tutti, se non è pubblico, se non puoi farlo vedere in foto, in video, allora è sicuramente qualcosa che vuoi nascondere, qualcosa di sbagliato, immorale, illegale, etc.». Alla tirannide della cristallinità, la compagnia risponde con uno specchio storto dove tutto cambia, costantemente. L’illusione di una società piatta, amalgamata e omologata lascia il posto a picchi di anima «cangianti e in continua formazione». Come fare a prenderne coscienza? «Con un dispositivo prettamente teatrale: la maschera».

Avviato il processo creativo, allora, si aprono le porte alle categorizzazioni – momento d’intrattenimento, pièce teatrale, opera artistica, performance – perché salire su un palco è sempre e comunque un atto comunicativo. I Dynamis, però, sembrano voler ragionare su paradigmi diversi, valorizzando «l’energia vitale e connaturata dei ragazzi». Questa, per l’appunto, «è l’intenzione con cui ci avviciniamo ai ragazzi e con cui cerchiamo di farli avvicinare al mondo delle arti performative. Che non sono esattamente il mondo dello Spettacolo, anche se spesso si fa confusione. Viviamo nell’era dei talent show, delle carriere fulminee al cinema o in TV, questo condiziona per forza le giovani generazioni nel formulare i propri desideri. Non perché più deboli o superficiali di altre, ma semplicemente perché, in ragione del momento della vita che stanno attraversando, sono più esposte al desiderio innato di proiettarsi in uno o mille futuri fantastici. A 13, 16, 20 anni tutti abbiamo fantasticato su cosa saremmo stati. Il problema è che di fronte a questi desideri vengono posti specchietti per le allodole, false promesse di carriere scintillanti, che incantano e distraggono. Ci interessa di più immaginare e sperimentare percorsi di esplorazione del sé, nel lavoro collettivo, che facilitino la costruzione di strade autonome e sguardi critici.
Che conquista sarebbe già permettere a ognuno di rafforzare la propria identità, renderlo orgoglioso della propria specificità, meno timoroso e preoccupato della corsa dietro modelli esterni, il più delle volte discutibili».

Una volta definito il cosa, però, è necessario anche riflettere sul come. Data l’impossibilità di scindere le due caratteristiche principali di questo percorso formativo (disturbo e creazione), occorre scegliere le vesti adatte per presentare al pubblico teatrale una creatura passibile di immediata classificazione nella sfera della pietà. La compagnia è ovviamente consapevole di questo potenziale ostacolo, e condivide l’idea di «veicolare le ragioni del lavoro» (parlandone apertamente nel libro Mi fanno male i capelli, prodotto finale del progetto complessivo, dove è possibile trovare una testimonianza diretta dell’esperienze presso l’OPBG), «ma per il pubblico che arrivava a teatro, magari non particolarmente dell’ambiente e che quindi non ha seguito i comunicati stampa e la comunicazione ufficiale, ci è sembrato importante garantire la neutralità dei protagonisti. Per noi sono 18 adolescenti che hanno lavorato con noi per un anno; lo stesso deve poter arrivare all’amico che viene a vederli». Ci si trova allora davanti al prodotto di un workshop teatrale, né più né meno. «Mettendo in conto che si tratta di un percorso formativo, di laboratorio, che è rivolto a ragazzi e ragazze che hanno altri impegni e priorità, anche solo per l’età e perché non sono coinvolti professionalmente, davvero il valore del percorso e del risultato finale è così legato al fatto che in parte soffrano di disturbi dell’alimentazione?».

Da qui, la scelta di un testo che fluisce rapidissimo nel viavai scenico e a momenti non lascia traccia nella mente del pubblico. «Come la malattia è stata appena un pretesto nell’incontro con le ragazze, lo specchio di Alice è un’occasione da cogliere e dimenticare in fretta. Un espediente messo in mezzo, nel piatto del lavoro, un contenitore di temi di cui nutrirsi, quando percepiti vicini, propri. L’onirico e l’attraversamento, il mondo da esplorare, i dubbi, la punizione, la difficoltà di capire, la curiosità di capire, restano poco interessanti se affrontati come temi universali. Diventano preziosità invece nel manifestato individuale di ciascuno, ciò che lega i ragazzi alla drammaturgia scenica via via che si struttura. Per il pubblico non è sempre chiaro che il racconto della ricerca identitaria, oltre lo specchio, è quello di una ragazza nel dramma dell’anoressia, ma non è importante. Perché a gradi diversi è lo stesso dramma di P. che ha 21 anni e sta ancora cercando di finire l’istituto tecnico, o di Z. che si infliggeva tagli, o di L. che fatica a socializzare.
Abbiamo cercato di guardare i 18 ragazzi che si sono messi in gioco senza etichettarli perché disagiati o non disagiati, di non cadere nella tentazione di trattarli da persone speciali ancora prima di conoscerli, e non alimentare l’idea che magari un po’ di sfiga fa pure comodo, fa rumors».

La compagnia Dynamis decide, quindi, di fare (e far fare) teatro per ritrovare se stessi, andando però oltre alla classica teatroterapia d’improvvisazione, facendo a loro volta tesoro delle esperienze che vengono messe a nudo dai volenterosi ragazzi dei laboratori. «In alcuni interventi abbiamo parlato di teatro mercuriale intendendo un teatro che entra insinuandosi negli spiragli, spesso i pochi disponibili. Le inferriate del carcere, le porte video-sorvegliate del reparto di neuropsichiatria, ma anche le scuole dove sempre a fatica si riconosce il bisogno di certi spazi. Mercurio è il messaggero delle divinità romane che per la sua velocità rappresenta i ladri, inafferrabile e ambiguo, ma è anche dedicato alla salute degli esseri umani, è un dio dell’allegrezza, custode della pace e della solidarietà». Convinti, infatti, della circolarità dell’educazione e della condivisione di conoscenze, i Dynamis fanno fede al proprio nome e si immergono senza tema in una ricerca dove i punti di riferimento e le prospettive sono, spesso e volentieri, sottosopra. «Quest’anno abbiamo guidato un laboratorio sperimentale per insegnanti, è stato stimolante condividere strumenti pratici per un approccio diverso alla formazione, che capovolga la strada frontale e autoritaria che ci propone l’istituzione e che alla fine sembra l’unica possibile».

Il motto, in buona sostanza, è questo: «Il teatro è strumento per indagare rotte virtuose e dynamiche di affermazione identitaria individuale e collettiva. È una possibilità, quella che più ci appartiene, per fortificare le strade libertarie e utopiche di sperimentazione (artistica, sociale, educativa, etc), da distruggere e ricostruire assieme».

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro India

lungotevere V. Gassman 1 – Roma
sabato 04 giugno, ore 20.00

Alice
in scena 20 adolescenti provenienti dai laboratori di formazione teatrale Dynamis presso il Bambino Gesù e il Teatro Vascello
all’interno del progetto ArtisticaMENTE Mi fanno male i capelli
ideato e sostenuto da Associazione AMICI DEI BIMBI Onlus
in collaborazione con il Reparto di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù eTeatroVascello