Siamo ancora nel 1950?

Alla rassegna Garofano verde – scenari di teatro omosessuale quindici corti teatrali che trattano di omosessualità – prevalentemente maschile – parlandone quasi esclusivamente in chiave di omicidi, prostituzione, tossicodipendenza, suicidio, malattia, incesto, misoginia secondo dei luoghi comuni duri a morire.

Altri Amori è il primo spettacolo (dopo due reading) della XVIII edizione di Garofano Verde – Scenari di teatro omosessuale: quindici corti teatrali – termine improprio, entrato ormai nell’uso comune, che indica brevi atti unici – frutto del corso di scrittura Officina Teatrale di Rodolfo di Giammarco, patron della rassegna – che affrontano l’amore gay e lesbico da punti di vista che sfiorano l’omofobia.
In Troppo amore, di Laura Pacelli, c’è l’omosessuale di quarantatré anni che paga per fare sesso con uomini molto più giovani di lui e odia la madre accusandola di averlo fatto diventare “come lei”; due gay tossicodipendenti, uno dei quali si prostituisce per procacciare droga al compagno, sono i protagonisti di Posto ristoro, di Michele di Vito; Uscirò da questo mondo e dal tuo amore, di Valeria Lucchetti, racconta di due gay arabi esuli in Francia il cui omoerotismo ricalca i cliché di genere – uno dei due “fa la donna dell’altro”; ancora un arabo che ha ucciso il suo amante dopo essersi offerto passivamente a lui nonostante questi volesse fare sempre la parte della donna, in Chiamami felicità, di Angela di Maso); Hijira, di Samuele Boncompagni, presenta un indiano trapiantato in Italia, un Hijira, cioè una transessuale – uomo che si sente donna, interpretato da Gabriele Linari – che non è femminile ma irsuto, con una parlata maschile, per cui non si sa se il ragazzo che lo corteggia sia attratto da lui in quanto uomo o in quanto donna.

Su quindici corti solo quattro raccontano di donne, e due non sono nemmeno lesbiche: una è la classica donna distrutta e stravolta dall’uomo che l’ha ingannata nascondendole la propria omosessualità – Monique, di Tina Guacci –, l’altra è una prostituta che forse ama le donne ma che si concede anche agli uomini – Nero brillante, di Giuseppe Battiato –; ci sono poi due sorelle incestuose, una delle quali rimane incinta, non con l’inseminazione artificiale ma andando a letto «come una troia con chissà quanti maschi» – Ester e Alice, di Stella Novari – e due ragazze che per fare l’amore impersonano la prima una bambina e la seconda una tutrice aspirante suora – Modesta, di Carlotta Corradi.

Non mancano suggestioni letterarie e cinematografiche che, tranne in un caso, non sono accreditate: così Poche cose con me di Anita Cherubini Bianchi è tratto dal film Addio mia concubina (Cina, 1993) di Chen Kaige, nel quale un ragazzo dell’opera di Pechino cresce interpretando ruoli femminili e diventa dunque omosessuale, innamorandosi di un collega attore che però sposa una donna; mentre Solo il cielo sa di Andrea Ciommiento – che racconta di un gay malato di AIDS e suicida, è tratto dal romanzo Le ore del premio Pulitzer Michael Cunningham. Una stecca di Gauloises, di Franca Zucca – che prende le mosse da Solo per una notte di Nicolas Bendini edito da Playground – racconta, in maniera affrettata – del flirt di un liceale con un calciatore famoso, mentre ha una tresca con un compagno di classe (qui, a differenza del romanzo, inspiegabilmente effeminato). L’isola di Arturo, di Nadia Felice, è tratto dall’omonimo romanzo di Elsa Morante trasfigurato in chiave omoerotica: il protagonista bambino rimane deluso quando scopre che il padre non è il dio che egli crede che sia, davanti al quale si inginocchiano tutti, ma è proprio lui a inginocchiarsi davanti a un altro uomo. Solo Generations of Love, di Ketty di Porto, accredita la filiazione dall’omonimo romanzo di Matteo B. Bianchi, nel quale il migliore amico etero di un ragazzo gay gli confessa di essersi innamorato di lui, e quello più in difficoltà – paradossalmente – è proprio il gay dichiarato. Racconto leggero, allegro, disinvolto, stesso registro usato in Leggero (più del corpo) di Rosalinda Conti, nel quale un ragazzo non più giovanissimo e non particolarmente tonico dichiara il suo amore a un altro più magro (e più giovane) al quale chiede: «ma se mi ami divento [magro] come te?». Peccato che anche questo rapporto d’amore non si concluda positivamente: il ragazzo più giovane non lo ama e se ne va.

Questi corti francamente sgomentano. Non tanto per la loro natura letteraria, cioè di storie “scritte” e non pensate per la messinscena, che lasciano poco spazio a uno sviluppo drammaturgico – e bisogna riconoscere a Francesca Staasch, che firma tutte le regie, il merito di aver sviluppato per ognuno di essi un’azione teatrale – ma soprattutto per la visione desolante che danno dell’omosessualità.

È davvero insopportabile che nel 2011, in una rassegna di teatro omosessuale, si possa confondere ancora il transessualismo (identità di genere) con l’omosessualità (orientamento sessuale), o pensare che gli uomini gay “si sentano femmine” o le lesbiche “si sentano uomini”, così come irritante è continuare a declinare l’omosessualità maschile con la misoginia e l’effeminatezza. Nessuno – tranne rare eccezioni – in questi corti riesce a vivere una storia d’amore con felicità e pienezza ma non perché, come purtroppo capita, la società, il pregiudizio, la discriminazione lo impediscano, ma esclusivamente per motivi biografici, cioè privati, dei protagonisti.

I gay e le (poche) lesbiche che popolano questi corti sembrano così provenire dall’immaginario collettivo del 1950, quando l’omosessualità era sinonimo di sordidezza e infelicità e aveva sempre una causa patologica, ignorando – ci si chiede quanto in buona fede – i progressi fatti dalla comunità gay e lesbica italiana che oggi si sta costituendo in famiglie, molte delle quali vorrebbero sposarsi e non possono farlo, o hanno anche figli – e per poterli concepire con la procreazione assistita vanno all’estero perché la legge italiana non permette quella eterologa nemmeno alle coppie etero sposate – e combattono perché vengano legalmente riconosciuti entrambi i genitori che li crescono.

Questi corti ignorano che i gay e le lesbiche vivono oggi con la stessa serenità e felicità delle coppie etero – nonostante l’ammanco di diritti – e li collocano sempre in storie di eccesso, esotismo, dramma ignorando che l’orientamento omosessuale è “una variante naturale del comportamento sessuale umano” come ha riconosciuto l’Organizzazione Mondiale della Sanità dall’ormai lontano 1994. Che qualcuno lo ricordi agli autori di questi corti.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Belli
Piazza Sant’Apollonia 11/a – Roma
fino a domenica 12 Giugno, ore 21.15

Altri amori
Quindici atti unici di autori vari
regia di Francesca Stassch
con Dario Aita, Gabriele Linari, Claudia Crisafio, Simonetta Solder, Alessandro Epifani, Antonio Gargiulo, Alessandro Porcu, Gianantonio Martinoni, Annalisa Cordone