XII edizione di Orizzonti – Festival delle nuove creazioni nelle arti performative

Due autori ormai classici della letteratura moderna e contemporanea sono protagonisti di un contraddittorio mercoledì al Festival Orizzonti d’Arte.

La complessità intesa come sinonimo di profondità è una grande virtù se maneggiata con la dovuta maestria e, da questo punto di vista, la lingua italiana non teme confronti per ricchezza sintattica, semantica e di fonemi. La capacità di partorire interi mondi per immagini concettuali o semplici inflessioni dialettali – cangianti anche tra territori immediatamente limitrofi – rende bene ciò cui ci riferiamo.

Una grande potenzialità che, risalendo alle sue nobili origini greche, parte dalla retorica sofistica e giunge alla logica formale, passando così attraverso la dinastia filosofica – nel bene e nel male – più importante e influente della storia del pensiero e della civiltà occidentale. La ricerca socratica di un contenuto capace di evitare il nichilismo etico e civico, l’individuazione di questo contenuto in un sapere stabile e duraturo di carattere ideale garantito dal divino in Platone e l’aristotelica formazione di un sistema di regole logiche capaci di assicurarlo hanno determinato conseguenze strutturali dal punto di vista teoretico e pratico delle esistenze: su tutte, una impostazione individuale e collettiva che pensa il culmine della società nella dedizione alla tecnica. Manifestazione più esemplare del valore della scienza, la Verità della sua applicazione sarebbe allora garanzia stessa di una necessaria presenza di auctoritas in ambito culturale, politico e morale: riuscire a raggiungere un obiettivo concreto, sperimentabile e replicabile a partire da ipotesi (pre)determinate non costituisce forse la prova di basi teoriche certe e corrispondenti alla Verità? Come anche dell’importanza di una conseguente casta di sacerdoti, da intendere in senso lato, depositaria di tale commistione tra saggezza e sapienza?
Paradossalmente fu Galilei il primo che riuscì a incarnare la piena consapevolezza di questo spirito: senza nasconderne la parzialità, l’umana e non divina – dunque fallibile – conoscenza scientifica non è forse la migliore strategia cui il genere umano può volgersi per aspirare al miglioramento di questo che è l’unico mondo che siamo sicuri di abitare?

Una deriva arida e palesemente falsa non solo perché miseria e sofferenza sembrano endemicamente in quotidiana crescita. Soprattutto perché sembrerebbero esserlo in relazione a quei progressi tecnologici cui corrispondono orrori di bisogni alimentari e morte diffusi esponenzialmente senza precedenti accanto a opportunità che troppo, troppo lentamente allargano il proprio target di godimento. Dall’africana ebola a quel conflitto israelo-palestinese (cui Eva Robin’s farà esplicita allusione durante lo spettacolo), giusto per citare due esempi dell’oggi.

Proprio per contrarietà e per reazione, nel contemporaneo – e stabilmente da fine ottocento – è iniziata un’opera di demolizione di questa prospettiva di pura ideologia. Una cultura del sospetto che ha coinvolto ogni forma artistica, in primis la letteratura che, proprio nel tentativo di segnare un solco di responsabilità, ha finito per far clamorosamente intrecciare tra loro diverse forme espressive.

Warhol, Heidegger e Schoenberg (presenti a questo Orizzonti Festival), Nietzsche, Joyce e Sartre, Bergson, Kandinsky e Barba, Foucault, Breton e Carmelo Bene ne sono solo alcuni esempi.

In questo club di contestatori dell’ordine disciplinare costituito, di cantori delle contraddizioni contemporanee, di denuncia delle invasive pratiche che condizionano ormai palesemente la formazione stessa della coscienza, rientra a pieno titolo l’autrice austriaca protagonista di questa messa in scena del Teatro di Vita.

Jelinek è famosa al grande pubblico perché da un suo omonimo romanzo è stato tratto il film La pianista pluripremiato al Festival del Cinema di Cannes. I suoi testi, come anche la celebre dichiarazione con cui non si presentò al ritiro del Nobel nel 2004, sono scontri frontali con le vecchie forme di narrazione del mondo. Non a caso la motivazione dell’onorificenza recita «for her musical flow of voices and counter-voices in novels and plays that with extraordinary linguistic zeal reveal the absurdity of society’s clichés and their subjugating power» (Per il musicale flusso di voci e controvoci dei suoi romanzi e drammi che con una straordinaria accuratezza linguistica rivelano le assurdità dei cliché della società e il loro potere di soggiogare).

A esse, l’autrice oppone rinnovate forme stilitiche, scomposte solo in apparenza. In realtà, in urto con la sistemica genuflessione nei confronti di miti educativi cui religiosamente si viene invitati a conformarsi. Rispetto ai quei conseguenti ideali coercitivi (di genitorialità, adolescenza, amore, cittadinanza, ecc), nuove letterature hanno raccolto l’invito maieutico a favore della autentica realizzazione del sé, della costruzione di un mondo accogliente, inclusivo e non asservito alla presenza di autorità incontestabili.

In Jackie e le altre, delirio populista dedicato a Elfriede Jelinek, l’idiosincrasia e la sperequazione tra quanto ne rappresenterebbe l’impianto drammaturgico ambìto (sopra descritto) e quanto effettivamente visto rende complicato un approccio sereno nei suo confronti. Un allestimento dichiaratamente pop dalla locandina al chiaro riferimento alle produzioni seriali di Andy Warhol, i cui primi minuti non mancano di suscitare una certa curiosità. Merito di una scenografia composta principalmente dalle stesse interpreti in primo piano, da un pannello per la proiezione video e da numerose bamboline di Jackie sedute sullo sfondo – che, però, scopriremo essere di mero riempimento – e un accompagnamento, infine, ridondante nella sua riproposizione stereotipi audiovisivi.

Le quattro protagoniste con i loro altrettanti cubi illuminati, pseudo Jackie Kennedy Onassis in evocative pose plastiche, sono apparse ben lontane dalla restituzione visiva e concettuale di «una eroina e metafora del femminile contemporaneo».

Intente a un lungo disquisire su giro vita e tailleur di colore rosa, ingessate da una regia resa ancor più complicata da complessivi evidenti limiti interpretativi, la Jelinek dei Teatri di Vita non «congela la storia e procura una visione “mitica” dell’esistenza», ma incespica su un qualcosa di più vicino all’esaustività di una pagina di wikipedia che alla ricerca di «identità, non personificazioni».

In tal senso, placa e riempie il ricordo dell’ascolto pomeridiano dell’Orlando Furioso di Paolo Panaro sull’imperdibile lago di Chiusi, uno scenario unico che invitiamo tutti a visitare perché contribuisce a corroborare l’idea che Chiusi sia un luogo imperdibile di straordinaria bellezza e suggestione. Una interpretazione artistica all’insegna di una artigianalità consapevole che, attraverso un’opera di bella testimonianza letteraria, cui si accompagna la felicissima intuizione della scelta della location, è stata capace di raccogliere giusti consensi a scena aperta.

Una boccata d’ossigeno rispetto a acrobatici intellettualismi di una forzata ricerca di originalità ben lontana dagli esiti sperati.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno di Orizzonti Festival 2014:
Mercoledì 06 agosto 2014

Lago di Chiusi, ore 19.00
VisitAzioni
L’Orlando Furioso
di e con Paolo Panaro

Piazza Duomo, ore 21.30
Jackie e le altre, delirio populista dedicato a Elfriede Jelinek
Teatri di Vita
di Andrea Adriatico
con Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s, Selvaggia Tegon Giacoppo
co-produzione Teatri di Vita e Fondazione Orizzonti d’arte