Il cuore al patibolo

Quel che resta dell’amore è la paura: al Teatro dei Conciatori di Roma va in scena fino al 16 marzo la storia di sette umanità disfunzionali, negate a loro stesse e al mondo circostante, immerse in un’infelicità pura e ricercata, che non uccide meno della morte stessa.

È un luogo non identificato del Canada, o forse è un ogni-luogo, a ospitare le vicende molto nordamericane e insieme universali di Amore e resti umani. Un’opera che scarnifica lo spettatore, lo inghiotte in un vortice di pulsioni insane eppure così naturali, dalle quali nessuno è esente.
Cos’è l’amore? Chi è l’altro? Che cos’è la verità? La felicità esiste? Niente, nessuno, niente, no, sembrano le risposte urlate dai personaggi, che nel loro interagire disintegrano la realtà dei rapporti, della comunicazione, per approdare a un nichilismo disperato e sconclusionato.
In breve i profili: David (Massimo Odierna), ex attore, ora cameriere, gay devoto al dio della promiscuità, nega l’esistenza dell’amore eppure ama da sempre l’amico Bernie (Dimitri Galli Rohl), sciupafemmine in perenne sbronza e inadatto ai panni di marito e stallone che pur riveste (ricambia l’amore di David?). Candy (Valentina Bartolo) vive con David, recensisce libri, fa ginnastica, alterna digiuni a convulsi pasti bulimici e non vede – lei soltanto – la sua bellezza: a questo ci pensano il barista latin lover Robert (Luca Mascolo) e la lesbica della palestra Jerry (Cristina Mugnanini), con i quali si concederà – per ritrattare subito dopo – una chance di possibile felicità. Chiudono il cerchio, o meglio la rete, il giovanissimo Kane (Francesco Sferrazza Papa), aiuto cameriere di David e platonicamente (o carnalmente?) innamorato di lui (o dei suoi ruoli televisivi?), e Benita (Cristina Poccardi), puttana sensitiva che legge la mente altrui come un libro aperto e sacerdotessa della verità, sola contro tutti.
Uno di loro è il serial killer che stupra le donne della città e le fa a pezzi: un giallo nel giallo, perché forse miete più vittime la mancanza d’amore che il coltello dell’assassino. Il cuore nella sua infermità è il colpevole messo sotto accusa e condannato al patibolo: la paura gli fa il processo e vince. Questa la sintesi in metafora di una trama meravigliosamente intricata, dove tutto (e niente, un niente esistenziale eppure così concreto) accade in piani temporali sovrapposti. La regia, firmata da Giacomo Bisordi (già maturo nel suo Re Lear di fine 2012), si fa personaggio tra i personaggi: questi si muovono infatti in una sorta di continua coreografia, che li vede agire sul palco coralmente e ritmicamente (gli inserti musicali talvolta danno il tempo, creando una suggestione quasi cinematografica) e la cronologia dell’azione si delinea come la circolarità di un vortice, o la linearità di un domino, che fa cadere i pezzi uno dopo l’altro, fino all’epilogo. Una direzione che non lascia fiato, e per questo splendidamente omogenea con un’opera che vuole – e ci riesce – togliere il respiro.

E se il coinvolgimento nella storia è garantito da interpretazioni a tratti grandiose, va proprio alla regia il merito di assicurare una progressione narrativa cristallina, esibendo una poderosa capacità di montaggio alternato degli eventi.

Ma l’allestimento non si limita a sfoggiare questa complessità squisitamente drammaturgica e, a testimonianza del feeling tra Dimitri Galli Rohl (leggi 13 6 81) e Giacomo Bisordi, sbalordisce la capacità di interpellare con sensibilità estrema quel mondo di oggi tra tarda adolescenza e prima maturità, di riuscire a toccarne con forza le corde di quell’angoscia in cui si manifesta il demone della paura del fallimento. Una condizione esistenziale purtroppo comune e che – irresponsabilmente e colpevolmente – lo sfrenato consumismo contemporaneo fomenta a livello sovrastrutturale nelle forme di un individualismo competitivo e senza regole dove si trionfa semplicemente a spese degli altri, magari dei più deboli.

Altri dettagli contribuiscono a restituire il senso di profondità di questa messinscena, come la notevolissima l’intuizione riguardo l’utilizzo del nudo, annosa e stantia questione cui il pubblico italiano tarda tristemente ad abituarsi, educato a canoni medioevali (per cui esso, se non vuole essere fuoriluogo, andrebbe motivato specificatamente) o estremizzati alla Ricci/Forte (cui va il merito di averci saputo costruire parte della propria novità stilistica).

In un contesto dove miseria e autodistruzione sembrano essere ricercate (e non per un qualche piacere sadico e/o masochistico), lo splendore plastico dei corpi ammirati in scena fa, infatti, da contraltare all’oscurità di un inferno di relazioni che si materializza agli occhi. Il risultato simbolico è straordinario: l’esistenza perde ogni caratterizzazione dogmatica e integralista, tra bene e male, piacere e dolore, volontà e costrizione si instaura un rapporto non manicheo, ma di alterità soggettiva e fugace. Il valore della condotta (im)morale, sentito a pelle, perde così ogni significato dialettico e ne diviene eclatante il carattere anarchico, mentre la scelta del singolo si assolutizza, spalancando il baratro della solitudine più intima, propria di chi naviga a vista e senza alcun punto di riferimento.

Come se, di fronte all’automartirio dei corpi angelici intrisi di negatività delle due protagoniste (visivamente meraviglioso l’aspetto dannato da Rosso malpelo di Valentina Bartolo, la dispettosa Shirin Scintilla de La Melevisione), l’ideale dostoievskiano di una bellezza capace di salvare il mondo naufragasse completamente e con esso si umanizzasse/relativizzasse ogni distinzione – appunto – tra bene e male.

Interpreti giovani e già veterani per la capacità di cambiare registro e una impostazione dei tempi scenici rasente la perfezione rendono potente l’ideazione e l’esecuzione di questo Amore e resti umani.

Tuttavia l’allestimento non sembra ancora aver espresso tutte le proprie potenzialità e raggiunto quell’eccellenza, pure a portata di mano, qualcosa, infatti, si pone come classici granelli di sabbia all’interno di un meccanismo altrimenti perfetto e che, proprio per questo motivo, non è semplice da individuare.
Forse il testo, scritto nel lontano 1989 e – in effetti – non con l’ambizione di giocare sull’identità del serial killer, andrebbe diversamete colorato (meno giallo, più pulp? ridotta la durata, magari con il taglio di alcuni dialoghi e telefonate?) per tenere alta l’attenzione di un pubblico che, in realtà, è distante cento anni e oltre dalle atmosfere del romanzo originario? Forse sì, perché il minimo calo di tensione e ritmo corre un pericolo. Quello di essere percepito amplificato e di produrre un senso di affanno, complice la strutturale scontatezza dell’aspetto più superficiale della narrazione (appunto, scoprire chi è l’assassino).
O, banalmente, potrebbe essere la dimensione dello spazio teatrale ospitante a non essere formalmente idoneo al contenimento dell’esplosione di energia in scena? Potrebbe, ma dubitiamo, visto il fascino contemporaneo e noir del Teatro dei Conciatori.
O, ancora più semplicemente, il fatto che si sia trattato di una prima nazionale, dove la componente adrenalinica del momento gioca per forza di cose un ruolo non indifferente? Probabilmente sì, perché per forza di cose, per un gruppo di giovani che mostra uno strabiliante affiatamento e, quasi incredibile a dirsi, notevoli margini di miglioramento in termini di empatia oltre la quarta parete (che sarebbe stata anche opportuna), l’esperienza costituisce una componente assolutamente indispensabile. Per forza di cose e, aggiungiamo, per fortuna, perché un teatro come quello di Bisordi vive e respira.
E noi, pubblico in trepidante attesa della prossima volta, con lui.

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Lo spettacolo continua:
Teatro dei Conciatori – The New Urban Theatre

via dei conciatori, 5 – Roma
fino a domenica 16 marzo 2014
orari: martedì, mercoledì, venerdì e sabato ore 21.00, giovedì e domenica ore 18.00 (lunedì riposo)

Amore e resti umani
di Brad Fraser
traduzione Cosimo Lorenzo Pancini
regia Giacomo Bisordi
con Massimo Odierna (DAVID), Valentina Bartolo (CANDY), Dimitri Galli Rohl (BERNIE), Cristina Poccardi (BENITA), Luca Mascolo (ROBERT), Cristina Mugnaini (JERRI), Francesco Sferrazza Papa (KANE)
costumi Roberta Goretti
luci Marco D’Amelio
musiche originali Mirko Fabbreschi
impianto scenografico Paola Castrignanò
costruttore Claudio Petrucci
foto di Scena Tommaso Le Pera
grafica e comunicazione Studio KMZERO
ritratti e locanina Marco Montanari
assistente shooting Cecilia Santoni
cane Tripode Bettina J. Morgan
produttrice esecutiva Cristina Poccardi