Addio, mio amato TeddyB

teatro-era-pontedera2[1]Carrozzeria Orfeo va in scena a Pontedera con Animali da bar, la sua nuova produzione. Cinque personaggi presi a calci e rispediti all’inferno dall’autore.

Una scena asciutta e sicuramente funzionale, paradossalmente elegante, con begli effetti di luce. Dal nulla si materializza Swarovski a inizio spettacolo e si smaterializza alla fine delle sue tirate. Di fronte a una messinscena con aspetti interessanti, il testo e la drammaturgia lasciano domande, di cui quella fondamentale è: perché? Qual è il senso di questo discorso? E chi è Swarovski?

Cinque personaggi traditi dall’autore, per parafrasare Pirandello. Swarovski, infatti, sembra esserne il padre che, a differenza dell’autore di Pirandello che non voleva dare loro voce, compie una violenza nei loro confronti, non li salva, non li riscatta, li getta nella merda dell’esistenza. L’unica che lui stesso sembra riuscire a concepire. Le persone fanno schifo, il mondo fa schifo. Anche se non sappiamo bene perché. Il suo nichilismo è assoluto, demolitivo a prescindere, cieco e totale. Premessa e non conseguenza.

Uno spettacolo urlato, gridato, fondato tutto sul disgusto e lo squallore, con una latrina presente in scena per disgustare ancora di più, visto che non sembra avere altra funzione simbolica o pratica.

Volgarità, squallore, degrado, desolazione, violenza e disperazione – tanta tanta tanta disperazione. Se sembra esserci uno spiraglio nell’unico atto di coraggio, ossia la ribellione e il messaggio di Colpo di Frusta, bene, questo viene subito annientato, perché in fondo anche lui non era che un codardo incapace di accettare la propria aggressività e affermare i propri diritti.

L’inutilità dell’esistenza, che non riesce a regalarsi non tanto la possibilità, ma neanche il concepire un attimo di felicità, si fa tormento. Come il pazzo Sciacallo che entra in scena con la motosega, Animali da bar è un delirio folle del vuoto più assoluto, manifestarsi e dispiegarsi di energia negativa e distruttiva.

Non c’è speranza perché tutto è marcio e malato. Perché l’infanzia e l’adolescenza rubate sono perdute per sempre, perché non c’è amore, perché non c’è niente in cui credere. Perché non si può lasciare il segno, perché si è condannati dal caso e dalle condizioni sociali a non essere nessuno, a non fare la differenza, laddove essere qualcuno si identifica tremendamente con il successo e la fama di un Salvatore o di un premio Nobel.

Certo la vita è una trincea, però la metafora passa il limite se si crede davvero che le due situazioni siano paragonabili. L’essere macellato nella polvere perché risucchiato dagli eventi della Storia, o l’essere un idiota che non riesce a fare niente della sua vita (perché tutto sommato si tratterebbe di un atto di volontà).

Non solo, se in mezzo a tutti gli scambi di battute volgari, si può trovare del maschilismo, lo troviamo proprio lì, nella superficialità con cui i destini dei cinque idioti vengono assimilati a quello di lei, sola fin da piccola e che ha subito la sua dose di violenza reale, come fosse una pratica tradizionale, etologica, come fossimo anatre.

Sembra vendicarsi verso tutti Swarovski, e viene da chiedersi quanto mai possa essere stato deprivato della sua infanzia – visto che non ha pietà neanche di Mirka – e verrebbe da rassicurarlo che si può andare oltre, diventare grandi ed essere felici.

La rabbia e il livore dell’uomo si sfoga nel finale, dove ricorda troppo un Giletti a teatro che si alza e, come un ragionatore Pirandelliano, dice quello che pensa delle cose.

A volte, però, per uscire dalla crisi basterebbe non prendersi troppo sul serio e riderci su. Manca effettivamente un po’ di autoironia.

E come quel tale che voleva alzarsi e picchiare il cattivo, a noi (rispondendo con le stesse dinamiche psicologiche dei personaggi) verrebbe alla fine da dare un grande abbraccio al povero Swarovski, o regalargli un peluche, per fargli sentire che cosa significhi essere amati. Non il piacere, come crede lui, ma solo l’essere amati incondizionatamente.

Per morire e dire che si è stati felici, e che si è reso felice qualcuno.

Forse sono effettivamente troppi i problemi e le tematiche che si vogliono trattare, anche se tutto ciò rispecchia semplicemente il turbinio di vite e vissuti che si incontrano in un bar, con la sua finta comunicazione e il finto scambio, con persone in cerca di un’altra esistenza da veder passare, ma che finiscono risucchiate in un buco nero.

Tuttavia, nel rappresentarle (aldilà del conformismo, o della macchietta, che dir si voglia) non c’è stilizzazione, formalizzazione o l’elaborazione di un qualche percorso estetico, ma solo un volontario moto a degradare ulteriormente, annientare e ridicolizzare ancora di più.

Qual è il senso di tutto questo? Qual è il senso di questo discorso?

Sembra il grido disperato di un adolescente in lotta contro tutto e tutti, animato dal disprezzo più puro. E poi?

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Era
Parco Jerzy Grotowski – Pontedera (Pisa)

Animali da bar
uno spettacolo di Carrozzeria Orfeo
drammaturgia Gabriele Di Luca
regia Alessandro Tedeschi, Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti
con Beatrice Schiros, Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Pier Luigi Pasino, Paolo Li Volsi
voce fuori campo Alessandro Haber
musiche originali Massimiliano Setti
progettazione scene Maria Spazzi
assistente scenografo Aurelio Colombo
realizzazione scene Scenografie Barbaro srl
costumi Erika Carretta
luci Giovanni Berti
allestimento Leonardo Bonechi
illustrazione Federico Bassi
grafica Giacomo Trivellini
foto di scena Laila Pozzo
organizzazione Luisa Supino
produzione Fondazione Teatro della Toscana
in collaborazione con Festival Internazione di Andria | Castel dei Mondi