Ritratti d’Autore

Da Beyond Borders a Sie7e, continuiamo la nostra discussione, iniziata su www.inthenet.eu, entrando nei contenuti e nelle forme dei progetti multidisciplinari ideati nell’ultimo anno da Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola per creare ponti tra continenti e artisti in tempi di pandemia.

Anna Dora Dorno, finora soprattutto regista teatrale, nello sperimentare il proprio lavoro confrontandosi con la bidimensionalità filmica e il montaggio, quali limiti e quali opportunità ha colto?
Anna Dora Dorno: «Provenendo dalle arti visive avevo già una certa predisposizione e da un po’ di tempo pensavo di dedicarmi anche alla regia video, legandola però alle nostre performance teatrali. È chiaro che è un lavoro diverso perché devo osservare quanto si produce ponendomi il problema dello sguardo dello spettatore video – che è differente da quello teatrale. Pensiamo, ad esempio, alla simultaneità delle azioni sceniche di più attori sul palco: quella molteplicità non può essere colta dalla visione unidirezionale del pubblico di fronte a uno schermo. Anche l’interazione tra me e Nicola è cambiata perché tra noi si frappone la telecamera. Sebbene si mantenga una modalità performativa, dato che non pensiamo tutto a monte seguendo una sceneggiatura precisa, ma lavoriamo basandoci sul nostro background e, quindi, sull’improvvisazione in base agli spazi (che spesso sono disponibili per un solo giorno) e alle atmosfere che si creano interagendovi, non possiamo mai dimenticarci del terzo occhio. Di conseguenza, Nicola performa, ossia abita col suo corpo i luoghi, e io lo dirigo nel mentre come facevo in passato a teatro, durante le prove, ma frapponendo sempre – tra noi – la telecamera. Nicola, quindi, ha imparato a muoversi in funzione di quest’altro occhio».

Come si passa dall’essere un performer che scrive col corpo i suoi lavori teatrali, improvvisando sulle suggestioni della regista, all’essere ‘inscatolati’ in un telaio – com’è, in fondo, la telecamera – che limita gli spazi e impone tempi e ritmi precisi, al servizio del montaggio successivo?
Nicola Pianzola: «Credo di essermi mosso verso un’ottimizzazione della performance, in quanto l’energia investita e l’azione performata devono essere funzionali a una direzione precisa, ossia allo schermo. Occorre creare delle immagini che dialoghino tra loro e siano, contemporaneamente, in grado di trasmettere a chi ci vedrà attraverso uno schermo quell’energia che lo spettatore dal vivo può palpare. Questo è molto difficile e dipende sia dalla vicinanza del mezzo, ossia della telecamera, al performer e sia da quanto il mezzo è in grado di dialogare con lo stesso. Un conto è affidare a un operatore dei piani, delle riprese, un conto è se la regista stessa – ossia Anna Dora – mi segue nell’azione. Come in teatro provocava il mio processo creativo, ora provoca ma segue anche tale processo. E perfino la telecamera diventa un suo alleato in questa sollecitazione nei miei confronti. D’altro canto, non occorre spendere tante energie per riempire il luogo che abitiamo in un dato momento, dato che bisogna ricondurre l’intera azione nello spazio angusto dello schermo. Ed è d’altronde faticoso ottenere la concentrazione necessaria – che è massima. Io sono abituato a usare tuto il corpo e, al contrario, percepisco di starne utilizzando una porzione minima, il che mi costringe a concentrare ogni energia in uno sguardo, in un movimento magari impercettibile. Ciascuna azione (ma anche chi la performa) diventa più pulita, più precisa, ma occorre sapersi ‘contenere’. Solo grazie all’affiatamento con Anna Dora, ormai quasi ventennale, siamo riusciti a trovare la giusta sintonia. Del resto, avere una specie di gabbia nella quale muoversi in maniera creativa contribuisce a non disperdere energie: limita le possibilità ma costringe ad andare nel profondo».

State lavorando molto con gli Istituti di Cultura italiani all’estero. Sono enti maggiormente sensibili alla sperimentazione?
A. D. D.: «Devo ammettere che sono stati davvero ricettivi rispetto al nostro progetto di interazione in video con artisti di altri Paesi. Ovviamente, all’inizio, lo avevamo sottoposto soprattutto a Istituti presenti in nazioni in cui vivono artisti con i quali abbiamo già collaborato. Ma dobbiamo ammettere di aver ricevuto risposte positive anche da istituzioni e performer che non ci conoscevano né avevano mai lavorato con noi. Credo che, in quel momento, durante il primo lockdown, fosse importante, per loro, supportare un progetto che coinvolgeva l’Italia ma che era in grado di creare un ponte con il Paese nel quale erano presenti. Dato che nessuno poteva più viaggiare, l’unica modalità d’interazione era quella che proponevamo. Non solamente un contenuto video che avrebbe potuto produrre chiunque – come le riprese di uno spettacolo italiano da trasmettere o caricare in rete – bensì un qualcosa che realmente dialogasse con quel Paese, con un artista specifico, una cultura, una lingua e una tecnica performativa così da arrivare davvero al pubblico di un’altra nazione. Secondo me, si sono posti in maniera intelligente, cogliendo subito le potenzialità dello scambio. Penso, ad esempio, alla nostra collaborazione con l’Istituto di Cultura italiano in Iran e con un artista che, in quel Paese, è un influencer con 800 mila follower su Instagram. Le ricadute in termini di visibilità, anche per l’Italia, dell’aver lavorato con lui sono state enormi. Gli Istituti di Cultura hanno ricoperto un ruolo che il Ministero non è mai riuscito ad avere».
N. P.: «Per noi sono diventati dei veri e propri partner con i quali dialogare, quasi dei co-produttori, anche se istituzionali, perché hanno creduto e appoggiato un progetto complesso, che comporta l’ideazione e la messa in atto di co-produzioni a distanza con artisti che, a volte, non si conoscono. Inoltre, in ogni lavoro si collabora con una serie di professionisti, ognuno dei quali dà un apporto specifico come, ad esempio, il musicista e responsabile del suono Riccardo Nanni. Al montaggio e alla regia pensiamo Anna Dora e io, occupandoci sia del materiale audiovisivo, che realizziamo direttamente, sia di quello prodotto dagli artisti stranieri…»
A. D. D.: «… avendo, quindi, la responsabilità di dare un’interpretazione che sia rispettosa del materiale fornito ma che abbia altresì una coerenza rispetto al video finale».
N. P.: «Inoltre, tutti devono farsi carico delle possibili difficoltà di muoversi in un Paese straniero – seppure virtualmente. Lavorando con l’Iran, ad esempio, non abbiamo potuto trattare diversi contenuti. Ci è capitato anche di dover risolvere problematiche, sebbene diverse, con gli artisti spagnoli – in quanto hanno coinvolto un disegnatore diversamente abile e, come montatori e registi, abbiamo dovuto capire come rielaborare e inserire quel tipo di materiale all’interno del video finale. Devo anche dire che è stata una grande soddisfazione quando l’artista e i colleghi in Spagna ci hanno detto di aver apprezzato il modo in cui abbiamo trattato tale materiale creativo e di come siamo riusciti a farlo dialogare con il nostro – in quel teatro virtuale che, insieme, abbiamo ricreato».

State sviluppando un progetto dedicato ai 700 anni dalla morte di Dante Alighieri con artisti provenienti da Paesi ma, soprattutto, da culture diverse. Quali curiosità e quali difficoltà avete colto negli artisti coinvolti nel progetto?
A. D. D.
: «La chiave con la quale stiamo trattando Dante è la medesima di Stracci della Memoria. Non a caso, la prima persona che abbiamo coinvolto è Anuradha Venkataraman, che ha partecipato a Rags of Memory. Con lei avevamo già lavorato in India e avevamo un terreno comune sul quale muoverci – visto che La Divina Commedia aprirebbe a innumerevoli letture. Occorre, quindi, trovare degli agganci perché se l’opera dantesca fa parte del nostro bagaglio culturale – avendola sicuramente studiata a scuola e, magari, ripresa al liceo e all’università – per loro è un testo totalmente sconosciuto: come, viceversa, è per un occidentale il Mahābhārata (il maggior poema epico indiano, insieme al Rāmāyana, n.d.g.). La chiave che abbiamo utilizzato con lei è stata proprio cercare gli elementi comuni alle due culture e a opere diverse che si rifanno, però, allo stesso immaginario. Non a caso, Anuradha – dopo aver tentato di lavorare sulle suggestioni dantesche – stimolata anche da noi, ha iniziato a far dialogare i poemi indiani con la Commedia, cercando i canti che maggiormente si avvicinavano all’impostazione religiosa ma anche filosofica del proprio Paese. Trovare i corrispettivi: questa è stata la strada maestra che abbiamo seguito e ci ha permesso di far dialogare, ad esempio, l’ingresso nell’Inferno dantesco con quello proprio della tradizione induista».
N. P.: «Questo perché il viaggio ultraterreno è un elemento comune a tantissime tradizioni letterarie. All’inizio, Anuradha traduceva i canti in mudrā (gesti simbolici delle mani e delle dita, n.d.g.), mentre noi, a livello sonoro, sperimentavamo con la ripetizione e la traduzione fisica arrivava in un secondo momento. Abbiamo collaborato altresì con tre artisti indonesiani, che avevano a disposizione solo alcune traduzioni della Commedia. Sono un esponente del teatro delle ombre, un danzatore e una danzatrice. Il primo ci ha immediatamente confidato di essersi ispirato a un’opera tradizionale del suo Paese, che descrive un viaggio nell’Oltretomba e, quando ci ha mandato il materiale per il trailer, abbiamo subito pensato a Dante: le similitudini a livello visivo, quali la presenza delle ‘fiere’, erano incredibili. In un solo mese, dato che l’Istituto di Cultura ci aveva imposto tempi molto stretti, e nonostante non conoscessimo gli artisti coi quali avremmo lavorato e che si collegavano da Bali – ma che avevamo contattato attraverso loro colleghi balinesi che vivono a Singapore – abbiamo messo insieme questo team (tra l’altro, i tre fra loro si conoscevano e si sono ritrovati grazie a questo progetto!), che ha risposto immediatamente alle sollecitazioni e in maniera molto positiva. In soli tre giorni abbiamo creato il trailer e sondato l’immaginario dal quale potremo tutti attingere per il video finale».

Un altro progetto, SIE7E, si articola in una serie di videoclip dedicati alle sette arti, partendo dall’architettura. Com’è nato questo lavoro e quali vie pensate di percorrere nella nuova ricerca?
N. P.: «Questo progetto è nato dal fatto che la Farnesina, per la Campagna We are Italy, ha chiesto a noi – come ad altri artisti – di creare un video-messaggio, durante il primo lockdown. Il risultato è stato un video molto performativo e, a livello ministeriale, la risposta è stata davvero positiva. Dopodiché, agli Affari Esteri, come curatrice della campagna c’era Maria Luisa Pappalardo e con lei, quando è diventata direttrice dell’Istituto di Cultura italiano di Madrid, ci siamo risentiti. Da questo dialogo è nato SIE7E. Lei aveva già visto la serie 8 e ½ Theatre Clips, ideata con l’artista iraniano di cui raccontavamo e centrata su come la pandemia avesse cambiato le nostre vite. Però, a quel punto, né lei né noi volevamo più affrontare il discorso Covid-19…».
A. D. D.
: «… e così ci siamo accorti che, in questo periodo di chiusure, più che dal teatro ci arrivavano sollecitazioni interessanti da altri contesti, quali i musei o diversi spazi artistici alternativi, che sembravano interessati a interagire e a collaborare con noi performer, anche per ridare visibilità a luoghi che al momento erano preclusi al pubblico. Da tutti questi stimoli, abbiamo deciso di produrre dei video dove Nicola dialoga con gli spazi ma anche con gli oggetti ivi ospitati. Per Architettura abbiamo abitato il Pavillon de l’Esprit Nouveau di Bologna, mentre l’episodio successivo – dedicato alla scultura – è stato girato al Museo Civico Archeologico, sempre di Bologna. E questo dialogo con le altre arti è, per me, una bellissima esperienza dato che la possibilità di recarsi in un museo, quando è chiuso, ti dà l’opportunità di vivertelo e interagire con la bellezza che ti circonda con una libertà unica. Ti regala un’altra prospettiva e, soprattutto, in un periodo in cui non possiamo fare quasi nulla, né lavorare dal vivo con altri attori, né viaggiare per incontrare altre persone o culture, venire a contatto con luoghi talmente ricchi di storia e di arte, è un enorme arricchimento, in primis per noi stessi».
N. P.: «Lavorare con le arti era già una nostra caratteristica così come lavorare in spazi site-specific. Devo però dire che questa esperienza ci ha restituito tanto. Lavorare a contatto con queste strutture, sentendomi circondato da quell’armonia architettonica, al centro di forme statuarie perfette… so che può suonare antipatico, ma penso di aver ricevuto più energia dalle statue che, a teatro, da alcuni attori!».

Nella foto: Sperimentazioni di Instabili Vaganti sul progetto video dedicato a Dante, messe in scena durante la residenza a La Città del Teatro di Cascina (foto gentilmente fornita dalla Compagnia).