Ritratti d’Autore

Dal 6 marzo 2020, alla Palazzina delle Arti di La Spezia, torna la mostra fotografica di Marzio Emilio Villa, Kebek-Lepage, ritratti ambienti: un réportage dei luoghi e delle persone del Québec che hanno ispirato il teatro del regista/drammaturgo franco-canadese Robert Lepage. L’esposizione è già stata ospitata, in novembre, presso l’Università Statale di Milano, dopo un primo allestimento all’interno del Festival Inequilbrio di Armunia (dal 26 giugno al 31 luglio). In vista del riallestimento della mostra a La Spezia, si ha avuto l’occasione di intervistare la curatrice Anna Maria Monteverdi, ricercatrice di Storia del Teatro all’Università di Milano e specializzata sin dal periodo del suo dottorato di ricerca proprio sul pensiero Lepage (si veda almeno il recente Memoria, maschere e macchina nel teatro di Robert Lepage, Milano, Meltemi, 2018).

Lei ha visitato il nuovo spazio di lavoro di Lepage: il Théâtre Le Diamant. Può dirci qualcosa al riguardo?
Anna Maria Monteverdi: «Lepage da tempo stava progettando di spostarsi dalla storica sede di Ex machina, una ex caserma dei pompieri degli inizi dell’Ottocento e che si affaccia sul fiume San Lorenzo, molto suggestiva ma poco pratica, a un teatro vero e proprio. Così ha acquisito una struttura nel cuore della vecchia Québec in parte abbandonata, che nei decenni aveva ospitato un centro sportivo, una biblioteca, un cinema, un teatro di vaudeville, e un locale di intrattenimento per giovani. Il restyling dell’edificio (con uso in particolare di vetro e legno) è stato molto lungo ma i cittadini hanno vissuto questo passaggio dal vecchio al nuovo come una specie di restituzione alla comunità di una parte della sua memoria storica. Il nome Le diamant è anche indicativo perché, come dice Lepage: «Rimanda a qualcosa di prezioso, raro ed eterno, ma anche alle mille sfaccettature dei suoi tagli, esattamente come il progetto del nostro teatro, complesso e sfaccettato». La programmazione è, in effetti, sfaccettata, va dal teatro di ricerca al circo, al teatro ragazzi; il presidente del Diamant è la sorella di Lepage, sua manager, Lynda Beaulieau. L’inaugurazione è stata un evento molto atteso e significativamente Lepage ha voluto come primo spettacolo una riedizione di un suo storico lavoro datato 1995, Les sept branches de la rivière Ota (in cui si commemoravano le vittime di Hiroshima nel 50° anniversario della bomba atomica). Lo spettacolo durava 7 ore con varie pause e il pubblico del Diamant era composto non solamente da centinaia di fan di Lepage ma da moltissimi giovani e giovanissimi che durante l’intervallo sedevano per terra ovunque, in una curiosa e bellissima atmosfera informale che non mi aspettavo di trovare».

Come è nata l’idea di creare e organizzare questa mostra fotografica insieme a Marzio Emilio Villa?
A. M. M.: «Da tempo io e Marzio, che conosco dai tempi in cui studiava Fotografia a Brera, stavamo cercando il modo per collaborare e la presenza di Lepage un anno fa a Parigi, dove Marzio attualmente vive, è stata l’occasione: lo spettacolo che veniva rappresentato al Théâtre du Soleil era Kanata e debuttava con grandi polemiche perché il tema era quello di storie legate ai nativi del Canada, argomento ancora controverso e, per certi aspetti, tabù. Il caso ci è venuto incontro: la fidanzata di Marzio (la bellissima Virginie Bujold-Paré nostra icona della mostra) è quebecchese con origini autoctone, e da lì è scattata l’idea di indagare le varie culture che compongono il “mosaico culturale canadese” e che sono state in parte indagate da Lepage in vari spettacoli: oltre a quella indiana anche quella cinese ne La trilogia dei dragoni. Considero il metodo di lavoro di Marzio, che è quasi intimo coi soggetti ritratti, molto simile a quello di Lepage, che ricrea a teatro una comunità ritualmente riunita che si fa coinvolgere dalle storie raccontate. Quella di Marzio è una libera interpretazione del teatro o, se vogliamo, un teatro invisibile che trapela dai luoghi immaginari del teatro di Lepage».

Quali metodi e quali fini hanno guidato la realizzazione del vostro reportage fotografico?
A. M. M.: «Credo che il metodo sia stato quello di un’indagine sociale, ma emotivamente molto partecipata; andare a scovare un nesso tra luogo e identità era un suo obiettivo primario, e questo è evidente nelle immagini. Non so se si tratti davvero di réportage ma sicuramente lo scavo psicologico degli scatti è incredibile; tuttavia il risultato finale, come ha ricordato il filosofo Elio Franzini, Rettore dell’Università Statale che ha presentato la mostra, è una serie di immagini-simbolo. E non c’è una migliore definizione, in effetti: dalla realtà concreta, dai volti dei veri autoctoni fermati nella métro o nelle periferie, Marzio è riuscito a distillare un emblema, a renderli astratti. Credo ci si commuova di fronte alle sue fotografie proprio perché sono universali: quei visi, con le loro storie complicate, in qualche modo ci appartengono, non ci sono estranee, e in un mondo che cerca di catalogare tutto matematicamente con algoritmi, è confortante sapere che l’arte può ancora comunicare in modo così profondo, diretto, ma anche misterioso, imperscrutabile».

Avete usato dei criteri per allestire la mostra? Più nello specifico, come avete selezionato gli scatti e in che modo li avete disposti nello spazio?
A. M. M.: «Questa mostra è stata pensata per gli spazi di Castiglioncello, ossia Castello Pasquini, dove la struttura Armunia ci ha ospitati per il Festival Inequilibrio, lo scorso luglio. Alla Statale di Milano abbiamo adottato, per necessità, una soluzione più agile, disponendo le fotografie su cavalletti di diversi formati, addossati alla parete di vetro che dà sul cortile settecentesco, cercando una continuità tra interno e esterno: a ogni ora del giorno questa relazione si ricrea grazie alla luce naturale, alle ombre della sera, ed è emozionante vedere come cambia la sensazione che le immagini producono nel corso dell’intera giornata. Essendo collocata proprio davanti all’Aula Magna, cioè nella sede principale dell’Università, la mostra era giocoforza in un punto di passaggio obbligato e siamo stati per molto tempo a osservare le reazioni dei ragazzi che, uscendo da lezione, si soffermavano a guardare le fotografie, incuriositi. Il pubblico non era quello di Castiglioncello, cioè avvezzo al teatro. Quindi, le fotografie erano lette innanzitutto come réportage geografici prima che teatrali».

Il titolo della mostra isola due direttrici di indagine: i “ritratti” e gli “ambienti” del Québec. Può spiegarci la differenza tra questi concetti? Inoltre, avete raggiunto anche delle possibili sintesi tra le due direttive? Avete fotografo dei “ritratti d’ambiente”, per esempio?
A. M. M.: «Come ha notato il professor Vittorio Fiore alla conferenza di presentazione a Milano, la relazione tra i due temi è strettissima sin dal progetto: fuoriescono chiaramente se si fa un “montaggio” immaginario delle foto, oppure se si legge il catalogo che ha un’impaginazione particolare (i ritratti sono graficamente «contenuti nell’ambiente»), o se si dà uno sguardo con un colpo d’occhio al raggruppamento scelto per le mostre, soprattutto quella di Castiglioncello – che ci permetteva una maggiore libertà di progettazione degli spazi. Però la cosa interessante è che ogni ritratto, in qualche modo, denota un ambiente di riferimento, cioè un’identità di luogo e i luoghi a loro volta sono “trattati” come ritratti, hanno cioè una loro “umanità”. Io adoro il “ritratto d’ambiente” della Chinatown di Montréal, in quanto evocativo e bellissimo: con la postproduzione Marzio ha saturato dei colori accesi ricreando quella Cina che ti aspetti… Ebbene, sono andata proprio lì pochi mesi fa ed ero arrabbiata e delusa: rivolevo la Chinatown di Marzio!».

Lepage ha mai elaborato un pensiero sulla fotografia? Se sì, può sintetizzare le premesse da cui parte e le sue idee fondamentali?
A. M. M.: «Lepage fa un teatro che si basa molto sull’immagine, come è noto, ma non usa la fotografia come mezzo prevalente, piuttosto il video; certamente si possono isolare dei momenti di scena e leggerli come delle istantanee, un seguito di istantanee straordinarie e ne potrei raccontare moltissime. Possiamo fissare dei fermi-immagine e da questi narrare un intero spettacolo. Nella scena finale di Kanata il protagonista diventa simile a uno sciamano e, nella visionarietà teatrale, la sua canoa “naviga” in cielo rovesciata con lui e la ragazza collocati dentro, a testa in giù. Siamo dentro un rituale e il palcoscenico si trasforma nel cerchio invisibile, luogo dell’impossibile, del sovrannaturale. È uno di quei momenti che fa rimanere a bocca aperta. I fan di Lepage sanno che queste istantanee, questi quadri visivi sono sempre presenti e sono una delle caratteristiche del suo teatro e anche delle sue regie d’opera».

Che cosa ci dicono queste foto della poetica teatrale di Lepage?
A. M. M.: «Sono suggestioni, spunti, visioni indirette; Marzio non conosce e non ha frequentato il teatro di Lepage ma lo ha sentito raccontare da me e dai miei libri e ha immaginato i luoghi e i protagonisti delle sue storie rileggendole con la propria sensibilità. Storie che apparentemente partono tutte dal Quebec ma, richiamandomi ancora alla riflessione del professor Franzini, anche se quebecchese Lepage racconta le storie anche da una prospettiva culturale europea e non solamente francese».

Pensa che sia possibile fotografare il teatro di Lepage? Oppure esso è inafferrabile e le foto possono al massimo riuscire a dare un’idea del clima o delle circostanze da cui nascono i suoi spettacoli?
A. M. M.: «Il professor Vittorio Fiore ha detto una cosa magnifica a proposito della mostra: Lepage è un autore per il quale una mostra del genere ha senso perché la relazione tra le sue drammaturgie e i luoghi è fortissima. E i luoghi sono luoghi-risorsa, dice Fiore, giocando sul metodo di improvvisazione teatrale di Lepage che usa gli oggetti-risorsa. Luoghi che sono insieme fisici, concreti, geografici ma anche simbolici. Per questo il suo teatro, giocando sul limitare tra realtà e simbolo, può offrire a un fotografo momenti speciali. Rispetto al poter raccontare con la fotografia ciò che sta prima, questa è una funzione più documentaria, legata alla rivelazione della scena, allo smascheramento, e non è assolutamente facile da ottenere perché gli spettacoli seguono processi lunghi e articolati, frutto di improvvisazioni, di atelier collettivi di creazione. Quindi, un simile progetto implicherebbe molti mesi di presenza in teatro. Peraltro non credo esista un lavoro documentativo di questo tipo. Almeno, non ancora!».

La mostra si terrà:
Palazzina delle Arti

via del Prione, 234 – La Spezia
da venerdì 6 marzo a domenica 3 maggio 2020
(orari e vernice in via di definizione)

Kebek-Lepage, Ritratti ambienti
mostra fotografica di Marzio Emilio Villa
a cura di Anna Maria Monteverdi
con il supporto della Delegazione del Québec a Roma e della Società Natural Code