Quello che le donne dicono

Diversamente dedicati a un rinnovato protagonismo delle donne, Antigone | Metamorfosi di un mitoSic transit gloria mundi aprono la prima settimana di spettacoli in concorso al D.O.I.T Festival 2017.

È un complicato esordio al femminile, quello che caratterizza la terza edizione del D.O.I.T, festival di Drammaturgie oltre il Teatro ideato e diretto da Angela Telesca e Cecilia Bernabei in collaborazione con L’Artigogolo e a cura dell’Associazione Culturale ChiPiùNeArt.

L’inaugurazione è affidata ad Antigone | Metamorfosi di un mito, pièce diretta da Giancarlo Gentilucci e interpretata da Tiziana Irti, un adattamento di Antigone a Scampìa di Serena Gaudino, «testo vincitore della II edizione del concorso L’Artigogolo».

Esito di un coraggioso progetto realizzato con l’associazione Dream Team – Donne in rete per la RiVitalizzazione urbana di Patrizia Palumbo per «promuovere un percorso che, partendo dal loro vissuto (delle donne di Scampia, ndr), le invitasse a riflettere sulle loro condizioni di vita», Antigone a Scampìa è un testo coraggioso perché in grado di rinnovare il necessario legame tra cultura e vita, restituendo carne e sangue all’intuzione politica di Simone Weil, ossia utilizzare i testi classici per stimolare l’autocoscienza civica e morale della classe operaia e, con essa, le relative condizioni di vita e lavoro.

Introdotto con rischiosa pedanteria prima che lo spettacolo inizi dalla protagonista Tiziana Irti, l’adattamento, curato dalla stessa Gaudino, rimodula le coordinate originarie dal proletariato francese alle donne di Scampia e si ricontestualizza pochi anni dopo la cosiddetta faida tra i Di Lauro e gli scissionisti di Secondigliano iniziata a fine 2004 e conclusasi l’anno successivo con il celebre bacio in tribunale tra Paolo Di Lauro e un boss della fazione avversa, Vincenzo Pariante.

Quello di Antigone, in particolare nella versione Sofoclea, è uno dei miti fondativi piú controversi e (stranamente) meno moralistici della civiltà occidentale. Ancora oggi, rispetto al conflitto consumato tra la piccola figlia di Edipo, descritta nel suo furore adolescenziale, e lo zio Creonte, non è scontato scegliere da che parte stare: se, da un lato, sembra istintivamente spontanea e doverosa l’adesione ideale alle ragioni di Antigone, dall’altro abbiamo il legittimo realismo di chi non ignora le virtù democratiche di uno Stato di diritto (aspetto che rappresenta uno tra gli elementi di universalità dell’intuizione sofoclea), vale a dire di una società organizzata capace di gestirsi attraverso una giustiza imparziale e non personale.

Il mito di Antigone spalanca tutta la radicalità di questioni inattuali, quali il destino dell’essere umano nel mondo e la dialettica escludente tra libertà e diritto, così prestandosi meravigliosamente a decostruire la natura intima dei fenomeni sociali di qualsiasi epoca. Da questo punto di vista, l’operazione di Gaudino (e prima di lei della Weil) rappresenta uno straordinario esempio del potere formativo, concreto e non aleatorio della cultura; un potere non coercitivo perché finalizzato a restituire ai contemporanei non il posto sulle spalle dei giganti assegnato loro dall’impostazione museale e  mummificante degli ordinamenti liceali, classici e accademici del nostro sistema educativo, quanto quello di esseri umani tout court con potenzialità pari alle proprie responsabililità.

Con Creonte e Antigone siamo, insomma, di fronte a due ragioni che non ammettono contraddittorio; come Hegel sintetizzò nella Fenomenologia dello spirito la scelta è un salto nella fede: la «Legge della polis, o degli dèi» di Creonte o la «Legge del sangue o degli dei inferi» di Antigone? Rispetto a questo esistenziale ma materiale aut-aut, qual è l’urgenza proclamata dalle e con le donne di Scampia? L’assenza di una autentica legge positiva in alternativa alla tribalità del sangue e dell’onore? O il diritto morale (perché divino e confessionale) e personale (perché imperativo laico e categorico) proclamato dall’eroina di Tebe?

Se l’alternativa è ardua, Gaudino ne coglie la complessità interrogandosi su chi siano realmente queste (cinquanta) donne cui, lungo un anno di conversazioni, tra il 2008 e il 2009, ha raccontato l’antico mito (tanto «carnefici quando si sostituiscono ai capi e diventano depositarie di segreti, si occupano di traffici illegali, di riciclaggio», quanto «vittime quando si accorgono che il loro stesso sangue le identifica col clan […] dei propri mariti e del Sistema e del vuoto che lascia lo Stato, del degrado sociale con cui devono quotidianamente fare i conti»), su come «solo chi non conosce la situazione possa pensare, troppo ottimisticamente, che le donne di Scampìa si identifichino in Antigone solo contro il Sistema camorristico» e non «contro tutti i loro nemici, che possono essere sia il Sistema che lo Stato». Gaudino, di fatto, non maschera o attenua la consapevolezza di come, dell’eroina greca, quelle donne rac-colgano soprattutto il dilemma «tra la coscienza privata e l’interesse pubblico», sì interiore, ma soprattutto lancinante in quanto antropologico e, dunque, ineliminabile dalla natura umana «perché entrambi hanno ragione» e che a Scampìa continua a trovare un drammatico terreno fertile per manifestarsi in un mai veramente interrotto bagno di sangue.

Pur avendo a disposizione parole autosufficienti nel provocare l’auspicata messa in crisi delle coscienze semplicemente descrivendo, Antigone | Metamorfosi di un mito perplime gravemente e non su semplici sfumature di grigio. Più che per la poca modularità cromatica nella restituzione sia gestuale che vocale delle sette protagoniste da parte di Tiziana Irti (Simone Weil, Antigone e cinque donne di Scampia) o un simbolismo àncorato al didascalico, è stata la scelta di fondo a banalizzare la figura di Antigone nel senso di una unilaterale esaltazione anarchica e positiva, se non proprio femminista (come purtroppo emerso a margine del dibattito post spettacolo), ossia mettere in scena un allestimento tradizionale completo di scenografia, accompagnamento sonoro e interpretazione attorale, così cercando, tramite la costruzione di immagini sceniche, un inopportuno sostegno all’impianto testuale. Una scelta, questo appesantimento sovrastrutturale, che ha finito per disturbare chiarezza e potenza dell’esposizione e, rispetto alla quale, se non un’ardita sperimentazione, avrebbe probabilmente pagato di più almeno una lettura scenica.

Il livello drammaturgico è salito, invece, con il secondo spettacolo in concorso, ancora un monologo, Sic transit gloria mundi di Alberto Rizzi, interpretato da una brillante ed energica (forse troppo) Chiara Mascalzoni. Nonostante il buonismo dell’esito finale e un registro calato quasi interamente sulla ricerca dell’intrattenimento e, di conseguenza, sulla catarsi inficino la possibilità di una seria riflessione sulla tematica politica affrontata, che pure sembrerebbe essere origine e finalità della rappresentazione (concentrarsi non «solo sull’esclusione delle donne dal sacerdozio, ma […] sulle ragioni storiche, teologiche e religiose della sudditanza della donna all’uomo, nella chiesa e nel cattolicesimo laico»), l’efficacia di un bel testo costruito ilare e con coerente cura storica, all’interno di una essenziale cornice scenografica composta esclusivamente di sedie, viene esaltata dalla solidità e omogeneità di una messinscena capace di non patire strutturalmente le proprie sbavature: da una certa monotona forzatura attorale alla prevedibilità di uno sviluppo trinitario dalla ricerca delle ragioni (dell’esclusione delle donne), alla loro denuncia e alla proposta di una soluzione, fino anche all’unica imperfezione ideologica presente nel monologo finale (la tematica storicamente protestante e non cattolica del cristianesimo come scandalo).

Dopo questi due spettacoli dall’Abruzzo e dal Veneto, il concorso del D.O.I.T Festival prosegue dal martedì al venerdì della prossima settimana con Il canto della rosa bianca. Studenti contro Hitler di Maurizio Donadoni e con il premio alla miglior regia dello scorso Roma Fringe Festival, Noi che vi scaviam la fossa di Vania Castelfranchi, rispettivamente dalla Sicilia e dal Lazio; dunque con proposte che ne rilanciano concretamente, come da intenzione delle sue direttrici artistiche, il desiderio di rendere Roma Capitale un posto di attrazione della drammaturgia contemporanea su scala nazionale e che vedrà salire sul palco del rinnovato Ar.MaTeatro di Roma compagnie provenienti anche dalla Puglia e dalla Lombardia.

Gli spettacoli sono andati in scena all’interno del DOIT Festival 2017
Ar.Ma Teatro
Via Ruggero di Lauria, 22 Roma
14-15, 16-17 marzo

Antigone | Metamorfosi di un mito
tratto da Antigone a Scampìa
di Serena Gaudino
con Tiziana Irti
regia Giancarlo Gentilucci
produzione Arti e Spettacolo
testo vincitore della II edizione del concorso L’Artigogolo

Sic transit gloria mundi
drammaturgia e regia Alberto Rizzi
con Chiara Mascalzoni
produzione Ippogrifo
premio della giuria alla XV edizione Premio Museo Cervi