Il Don Giovanni di Molière, tra farsa e tragedia

Abbiamo intervistato Antonio Zavatteri, a pochi giorni dal debutto del suo Don Giovanni di Molière – in scena dal 12 al 16 marzo – sul palco del Teatro Sala Fontana di Milano. Spettacolo partorito dalla collaborazione tra la Compagnia Gank e il Teatro Stabile di Genova, il Don Giovanni, diretto e interpretato da Zavatteri, non smette di esercitare la sua fascinazione. Abbiamo cercato insieme a lui di capire il perché.

Come mai ha deciso di mettere in scena proprio in Don Giovanni? Quale ritiene che sia il suo fascino oggi e che cosa rappresenta?
Antonio Zavatteri
: «Mi ero già occupato precedentemente di Molière, che mi affascina moltissimo, portando in scena l’Anfitrione e il Misantropo. Per quanto riguarda il Don Giovanni, mi sembrava innanzitutto adatto alla Compagnia e poi sono rimasto molto colpito dalla struttura atipica dell’opera rispetto al resto della produzione di Molière: non c’è un’unità di luoghi e di azioni, è davvero un’opera quasi shakespeariana, con una commistione di generi – dalla Commedia dell’Arte, alla farsa, al dramma – che ritengo estremamente interessante. Per quanto concerne la tua domanda su cosa significhi oggi mettere in scena il Don Giovanni, io credo che ci siano due grandi strade: o si racconta la storia di un essere immorale che viene trascinato all’inferno a causa della sua vita sfrenata – tendendo, quindi, a demonizzarlo in toto – o invece – che è stato il nostro tentativo – si possono mettere in contrapposizione due pensieri, quello libertino del protagonista e quello comune (etico se non addirittura moralista) di chi lo circonda. Abbiamo cercato, anche attraverso la comicità del personaggio, di renderlo un uomo, con tutti i suoi difetti e le sue debolezze, ma anche con un grande pregio che è quello di riuscire a distaccarsi dal pensiero comune»

A un certo punto mi ha colpito molto una scena triangolare, in cui troviamo Don Giovanni, Donna Elvira e Sganarello, che rappresentano rispettivamente il carnefice, la vittima e l’indifferente (che, nel mentre, si abbuffa). Ci vede una sorta di ritratto della società di oggi?
AZ: «Secondo me quella è la scena più limpida di tutto lo spettacolo. In molti l’hanno criticata, forse per la sgradevolezza dell’immagine di una donna abbandonata al suo dolore, stretta tra il suo carnefice e l’altrui indifferenza, ma io credo che sia una scena molto ricca. Si vede, ad esempio, Sganarello che, se da un lato è caratterizzato da una morale molto forte, dall’altra si rivela anche estremamente cinico e indifferente».

Infatti i due personaggi – Don Giovanni e Sganarello – sono solo apparentemente antitetici e ce ne accorgiamo soprattutto nella scena finale, quando Sganarello, mentre il suo padrone muore, si preoccupa soltanto della sua paga. Potremmo dire che non sono poi così diversi?
AZ
: «Esatto. È proprio il tentativo di cui parlavamo prima di mettere in campo due pensieri, astenendoci dal giudizio su chi abbia ragione e chi torto. Se è vero che Don Giovanni ha la colpa del fatto che non si occupa minimamente del dolore degli altri, mentre Sganarello ha una profonda spiritualità che lo porta a non provocare altrui sofferenze, è anche vero che c’è un rovescio della medaglia, che in Sganarello è per esempio l’indifferenza. Non credo ci siano un torto e una ragione assoluti. Il Don Giovanni è in un certo senso l’archetipo di tutti gli esseri umani, una ricerca del piacere che ci coinvolge tutti. Non che il suo modo di operare non sia criticabile, ma io ho voluto più che altro mettere in luce il suo aspetto umano»

Milan Kundera in Amori ridicoli distingue tra il Don Giovanni, inteso come Grande Conquistatore, e il Grande Collezionista. Che differenze ci vede?
AZ: «Io credo che il Don Giovanni non si limiti a essere un collezionista proprio perché non mira a una collezione in quanto tale – anche se poi la collezione diventa comunque il risultato finale – ma si innamora realmente delle donne che conquista. Certo, poi si stanca di loro in tempi molto brevi, ma è qualcosa su cui tra l’altro lui riflette, di cui è ben consapevole, solo che non riesce a fare altrimenti»

Quindi crede che ci sia una verità nei sentimenti di Don Giovanni?
AZ: «Sì, certamente. Il fatto che si spengano molto velocemente non significa che non ci siano o che lui finga. Detto ciò noi non abbiamo voluto scavare troppo in questo senso; ci siamo soffermati più che altro su un livello di commedia, quasi di Commedia dell’Arte, come la scena di Carlotta e Pierotto; del resto il nostro è un teatro popolare»

Potremmo dire che il vostro è uno spettacolo meta-teatrale, evocativo. Siete anche usciti due volte dallo spazio scenico per passare tra il pubblico, in due momenti molto significativi che hanno reso la sala una cripta, prima, e una chiesa, poi, come a simboleggiare un ruolo giudicante e quasi divino del pubblico.
AZ: «Io tendenzialmente non amo l’utilizzo della sala, del passare tra il pubblico. Ciò nonostante in quei due momenti ho sentito la necessità di usare in modo differente lo spazio, facendo della sala il mausoleo per poter isolare la statua, prima, e la morte finale, poi. In questo modo abbiamo reso il pubblico una sorta di commissione giudicante degli avvenimenti, in due momenti, tra l’altro, particolarmente tragici»

Può darci qualche anticipazione sui progetti futuri?
AZ: «Sì, dovremmo fare l’Amadeus di Shaffer e, quasi contemporaneamente, con due formazioni diverse, un Cyrano»