Attendere, tra le rise smorzate dal pianto

Il Teatro Ghione offre al suo pubblico una bella versione di Aspettando Godot, opera monumentale della modernità, che mette in luce la nostra triste condizione di esseri umani.

Quando nel 1953, al Théȃtre de Babylone, andò in scena la prima assoluta di Aspettando Godot, il pubblico e i critici restarono interdetti, per quanto in molti riuscirono a intuire già all’epoca la portata rivoluzionaria di quella pièce, destinata a diventare un punto di riferimento paradigmatico per tutto il teatro della seconda metà del Novecento. Infatti, l’interrogativo che assillò molti all’epoca, e che continua ancora oggi a ronzare nel pensiero e nell’immaginario collettivi in occasione di una nuova messa in scena del capolavoro di Beckett, è ovviamente: ma chi è Godot? Si dice che in occasione della prima, molti giornalisti e spettatori si affrettarono a recarsi dal drammaturgo irlandese per domandare direttamente a lui chi fosse Godot: Dio? La morte? La rivoluzione? La risposta di Beckett è divenuta celebre, anche perché carica di significato proprio ai fini interpretativi dell’opera: «Io chi sia Godot veramente non l’ho mai saputo, so però che ciò che conta nel titolo non è Godot, bensì Aspettando».

In questa battuta, è contenuto il valore etico e spirituale di un’opera apparentemente inconcludente e nichilista, claustrofobica e per questo, a primo acchito, intrisa di disperazione; eppure, in quella circolarità senza tempo, dove gesti e parole si susseguono e si ripetono in un luogo astratto abbandonato nell’insignificanza più cupa, riluce il significato morale dell’attesa indefinita come unica opportunità di relazionarsi a un’esistenza completamente abbandonata dal senso. Il significato filosofico, morale, artistico nel senso più ampio di Aspettando Godot è attestato dalla sua presenza costante nei cartelloni dei teatri di mezzo mondo ancora oggi; così è per il Teatro Ghione e per la versione diretta da Claudio Boccaccini, firma autorevole del teatro italiano degli ultimi decenni, che si relaziona al testo abissale di Beckett con doverosa e autentica devozione. La messa in scena appare “scolastica” nel senso buono del termine: nessun guizzo stravagante, nessuno stravolgimento, lo spettacolo restituisce la quintessenza beckettiana specie nella scenografia, caratterizzata da quell’ammasso di spazzatura che è l’ambiente statico “abitato” da Vladimiro ed Estragone, così come l’albero che come un ragno morto esprime al meglio la desolazione dell’anima tanto dei protagonisti quanto di chiunque vive su questa terra, costretto all’attesa e che solo nell’attesa può trovare un barlume di senso.

Ma torniamo alla versione del Ghione: ottimo il disegno luci, che più di una volta ammicca allo stile manierista ed espressionista di un Bob Wilson, come quando il blu del cielo notturno si staglia sui profili completamente anneriti dei personaggi, ridotti a sagome; oppure quando il colore rosso taglia la scena, illuminata solo in parte, o ancora quando i lancinanti monologhi di Pozzo e Vladimiro magnetizzano la luce testimoniando come ciò che stiamo vedendo non è una parodia clownesca o un mero divertissment da cabaret. Questo è il rischio a cui incorre ogni messa in scena di Beckett e Boccaccini tocca questo rischio ma riesce a salvarsi per un pelo: Beckett non deve far ridere, al massimo concede un sorriso smorzato molto più vicino alla malinconia che all’allegrezza. I dialoghi sconclusionati dei protagonisti si presterebbero alla deriva cabarettistica e il rischio è accentuato dalla scelta (infelice) di far recitare i due interpreti in dialetto (napoletano Estragone, ciociaro-romanesco Vladimiro); e lo stesso Pozzo, un magnifico Riccardo Barbera, forse fa più ridere di quanto dovrebbe. Però, il rischio di snaturare il testo per condurlo al gusto del pubblico, come detto, viene scongiurato da come il regista costruisce la scena attorno ai fulminanti monologhi, di Pozzo come di Estragone; questi monologhi sono l’autentico contenuto di verità di tutta l’opera ed evidenziano il significato autentico del riso che eventualmente abbiamo accennato in precedenza. Diventa evidente in quelle parole, infatti, come ciò a cui stiamo assistendo sia una tragedia, la tragedia dell’esistenza umana e se ne abbiamo riso è perché in fondo la nostra permanenza su questo mondo è a suo modo ridicola proprio perché senza speranza. Ciò che resta è “attendere”.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Ghione
Via delle Fornaci, 37 – Roma
dal 19 al 30 aprile

Aspettando Godot
di Samuel Beckett
regia Claudio Boccaccini
con Pietro De Silva, Felice Della Corte, Roberto Della Casa, Riccardo Barbera, Francesca Cannizzo
musiche originali Massimiliano Pace