Godot … a luci soffuse

Il Godot di Scaparro appare amichevole e scanzonato, dimenticando l’avvertenza di Beckett al regista della prima messinscena (1952): “niente è più grottesco del tragico”. Il risultato è uno spettacolo godibile, che però non spinge la pièce beckettiana ai confini della sua (im)possibilità.

Poco dopo l’inizio del primo atto, Estragone esclama: “Andiamocene”. Vladimiro risponde: “Non si può”. Estragone: “Perché?”. Vladimiro: “Stiamo aspettando Godot”.

L’attesa consente ai due protagonisti della pièce beckettiana di rinviare il loro suicidio. L’impiccagione all’albero che troneggia sulla scena è una soluzione poco attraente anche per un altro motivo: se Gogo riuscisse a morire e Didi no, uno dei due inseparabili amici resterebbe solo. All’improvviso irrompe sulla scena un ragazzo che, tutto d’un fiato, annuncia che “Il signor Godot mi ha detto di dirvi che non verrà questa sera ma di sicuro domani”.

L’annuncio è destinato a ripetersi, prolungando l’attesa, fino alla fine del secondo atto. Vladimiro: “Ci impiccheremo domani. A meno che Godot non venga”. Estragone: “E se viene?”. Vladimiro: “Saremo salvati. Allora andiamo?”. Estragone: “Andiamo”.

Nessuno si muove: alla parola non segue l’azione, quasi a ribadire l’autoreferenzialità del palcoscenico e l’inconsistenza dei personaggi che esistono solo “dentro” lo spazio assoluto della rappresentazione.
Dal 1952, anno in cui andò in scena per la prima volta al Théâtre de Babylone di Parigi, l’opera prima di Beckett continua ad essere rappresentata, incontrando l’attenzione dei registi e il favore del pubblico. Il motivo di tanto successo di fronte a un testo così enigmatico, privo di una vera e propria trama, non può essere attribuito neppure all’esistenza di un messaggio edificante, che gli spettatori possano portarsi a casa. La pièce, com’è noto, si svolge in un luogo non identificabile e in un tempo immobile, in palese contrasto con le tradizionali regole della poetica aristotelica. Cinque sono i personaggi che ci accompagnano in questo viaggio attraverso “l’humour et le néant”, come ebbe a scrivere Maurice Nadeau: i due protagonisti, Estragone e Vladimiro, abbigliati con vestiti logori e bombette alla Chaplin, ingannano l’attesa, facendo discorsi sfasati che rievocano le gag del teatro di varietà. Pozzo e Lucky, un istrionesco proprietario terriero e il suo servitore, tenuto al guinzaglio, raffigurano in modo plastico la dialettica hegeliana del signore e dello schiavo. Un ragazzo, per due volte, viene ad annunciare il ritardo di Godot. La pièce ha un andamento circolare, in quanto il secondo atto è la ripetizione del primo, con poche, piccole varianti.

Definire il teatro di Beckett è un’impresa ardua: pare più utile adottare l’apofasi, e cioè tentare di avvicinarsi ad esso per viam negationis, piuttosto che fornire una serie di qualificazioni positive. Non si tratta di teatro naturalistico, in quanto non presenta alcun aggancio alla realtà storica o quotidiana, né pretende suscitare l’identificazione psicologica degli spettatori con gli attori. Non è neppure un teatro esistenzialista, in quanto non celebra la libertà e la progettualità umane – si pensi a Le mosche di Sartre (1943) o a I giusti di Camus (1949) – sebbene recepisca i temi della noia e dell’assurdo in esso presenti. Non è un teatro pedagogico, alla Brecht, che attraverso la tecnica dello “straniamento” si proponga di condurre il pubblico alla presa di coscienza di una precisa verità politica e sociale e di mobilitare le energie necessarie a rivoluzionare le dinamiche di classe esistenti. Quella di Beckett è una parola che de-costruisce, dis-impegna, dis-solve anzitutto se stessa e le sue pretese di significazione, ma anche l’io che la pronuncia e che si considera il regista dei propri pensieri e delle proprie azioni. Una parola che non attua l’adaequatio rei et intellectus, perché può solo testimoniare la catastrofe già avvenuta della perdita della realtà. Estragone e Vladimiro aspettano che qualcuno – o qualcosa – li salvi dal presente nel quale sono “gettati” e sperano nella trascendenza assoluta, proiettandosi in un’attesa senza compimento.
Le reazioni del pubblico al Godot di Maurizio Scaparro, regista italiano di lungo corso dallo stile inconfondibile, sono improntate al riso, all’ilarità, come se non venisse colto il registro grottesco della pièce beckettiana. Lo humour nel testo di Beckett è innegabile e sincero, ma si combina con l’esigenza di oggettivare l’assurdo: un equilibrio difficile, o meglio uno squilibrio indispensabile per evidenziare come l’impotenza della parola si traduca nello slancio ostinato verso l’espressione. È come se lo spettatore vedesse le frasi dei personaggi, ma non ciò che esse significano o a cui si riferiscono, avvertendo anche la spinta con cui i loro discorsi vogliono continuare, perché cercano di trovare se stessi. Sotto questo profilo, i calembours o le mossette dei personaggi non appaiono solo comici o divertenti, a meno di non intendere questo termine nel senso pascaliano di divertissement, cioè come motivi di svago che hanno il solo scopo di distrarci dalla nostra condizione esistenziale.

Essi segnalano invece il tentativo di andare oltre al mondo frammentario nel quale siamo caduti verso una percezione innocente e creaturale dell’essere. L’assurdo, il grottesco consistono proprio nel cercare questo diverso approccio alla realtà e alle cose attraverso un linguaggio che rinunci a dare loro dei nomi, che riduca la parola a quasi-silenzio. Le luci soffuse, in luogo di un’illuminazione abbacinante o di una misteriosa penombra; la recitazione degli attori, certo impeccabile, ma eccessivamente empatica verso il pubblico; la costruzione di uno spazio scenico caldo e accattivante (si pensi alle linee morbide del salice piangente, a differenza di quello progettato da Giacometti): sono scelte drammaturgiche che ci hanno lasciato perplessi, in quanto rischiano di disperdere la tensione spirituale dell’opera, trasformandola in una graziosa – seppure stravagante – commedia, anziché svelarne l’afflato mistico, o persino gnostico. Ognuno ha diritto al suo Beckett. Ci sembra, però, che il ritratto fattone da Cioran riesca a coglierne appieno la tempra poetica e l’inflessibilità morale: “Fin dal nostro primo incontro capii che era giunto davanti all’estremo, che forse aveva incominciato da lì, dall’impossibile, dall’eccezionale, dall’impasse. E ciò che desta meraviglia è che non si sia mosso, che – giunto subito davanti a un muro – persevera con lo stesso coraggio di sempre: la situazione-limite come punto di partenza, la fine come avvento!” [Esercizi di ammirazione, 1976].

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Ghione

via delle Fornaci, 37 (zona San Pietro) – Roma
dal 4 al 14 aprile

Aspettando Godot
di Samuel Beckett
traduzione di Carlo Fruttero
regia di Maurizio Scaparro
con Antonio Salines, Luciano Virgilio, Edoardo Siravo, Fabrizio Bordignon, Gabrile Cicirello
scena Francesco Bottai
costumi Lorenzo Cutùli
luci Salvio Manganaro
assistente alla regia Gabriella Casali