Continua la rilettura di Lenz delle istanze più dinamiche del barocco spagnolo e l’audace accostamento del suo rivoluzionario spirito teatrale con l’arte performativa contemporanea. Al di là di rigidi e funzionali steccati cronologici, Maria Federica Maestri e Francesco Pititto decostruiscono la stratificazione che separa due epoche tanto lontane nel tempo, quanto intime nel loro continuo interrogarsi sul positivo e sul negativo dell’esistenza individuale.

Tornare al Barocco, alla tensione della forma e al superamento dei canoni di equilibrio e simmetrie che la razionalità occidentale ha stancamente ereditato dall’età rinascimentale, è una sfida dalle implicazioni artistico-culturali profondissime.

Il Barocco non fu semplicemente un momento di opposizione allo spirito del tempo del XV e XVI secolo o una mera riformulazione della distanza che separa il finito dall’infinito, quanto la radicale rivendicazione di una rinnovata concezione del sacro.

Un fil rouge aveva attraversato i secoli bui precedenti (che tali, ovviamente, non erano stati) ed era giunto intatto all’uomo nuovo e – dalla fiducia medioevale in un sacro che fosse riconoscibile – si giunse idealmente alla fiducia umanistico-rinascimentale nei confronti della ragione. Con il Barocco questa possibile analogia venne spezzata e il salto nel sacro divenne un salto nel buio dell’ignoto e Dio da conforto venne de-costruito nei termini di luce spirituale talmente trascendente da risultare invisibile.

Da tale atteggiamento spirituale, come spesso accade, ne derivò un diverso atteggiamento estetico nei confronti tanto dei contenuti, quanto della forma. Fu però quest’ultima a segnare il campo gravitazionale rispetto al quale i primi dovettero relativamente adeguarsi. Infatti, la forma artistica poté implodere o deflagrare, contorcersi o vibrare, innalzarsi o nullificarsi, ma anche quando annichilita non scomparì mai del tutto (evento paradossale tipico della contemporaneità). Un nuovo modo di intendere, pensare e usarla segnò un definitivo disequilibrio rispetto ai canoni precedenti, per esempio, con il sostanziale ribaltamento dei rapporti tra luce e ombra, profondità e bidimensionalità.

Nutrito da questo humus, il teatro esplose perché divenne il luogo privilegiato in cui l’artista poteva assumersi la responsabilità di non celare ma di rifrangere elementi che fino ad allora – e poi fino alle avanguardie novecentesche – mai erano stati accostati con tanta audacia: il mondo e la vita sono finzione o realtà? L’esistenza è mossa da ragione o fede? L’arbitrio è libero o servo? Il destino dell’essere umano è cupo o chiaro?

La risposta, per forza di cose parziale, si collegava esplicitamente alla concezione della vita come sogno (La vida es sueño) e/o messa in scena (El gran teatro del mundo) ed è splendidamente contenuta nella vastissima opera di Pedro Calderón de la Barca. Sarà poi uno dei compiti della Controriforma quello di piegare a sé e di richiamare al proprio ordine un’epoca le cui tendenze spirituali e culturali andavano ormai esaurendosi fino a essere rinnegate nel Settecento.

Da questa complessità, le composizioni drammaturgiche si innalzarono in termini di stratificazione e si armonizzarono con gli indistricabili paradossi di un’esistenza onirica e di una locura che veniva a rappresentare non più l’alternativa patologica alla norma, ma la relazione autentica e tipica di chi subisce le contraddizioni del proprio tempo non tanto nella modalità di chi mostra negazione, quanto di chi ha cura e attenzione.

In Calderón de la Barca nulla è più umano del mistico e nulla più mistico dell’umano, nulla più compassionevole dello sconforto, della colpa e del rimorso e nulla più tangente alla vita della morte. Non sorprende, dunque, che Lenz insista nell’utilizzare il genio castigliano per lanciare la propria sfida alla sperimentazione teatrale e – così facendo – demistificare ogni idea di originarietà primigenia del linguaggio culturale e – dunque – smascherare le maglie che stritolano in un inesauribile paradosso per la coscienza moderna ogni parola e ogni rappresentazione che non intende piegarsi a narrare e descrivere normativamente i nostri tempi bui come un semplice status quo.

Hipógrifo violento e Flowers like stars? eludono la vulgata secondo la quale il discorso drammaturgico avverrebbe in funzione dello sviluppo di tesi e del didascalismo ideologico, ma non ne disperdono mai il patrimonio di arte della parola per eccellenza. Sandra Soncini (nel primo) e Valentina Barbarini (nel secondo) non perdono tensione in nessuna battuta e restituiscono intonsa la progressione lirica dei testi originari (riscritture di Francesco Pititto da La vida es sueño e da Il principe costante, che fu forse l’opera calderoniana più amata da Goethe). Entrambe ne contrappuntano – in una superba corrispondenza – le connotazioni fisiche nei costumi, quelle caratteriali nell’estetica del corpo e quelle psicologiche nella relazione con le algide installazioni con cui Federica Maestri costruisce il perimetro di un’ambientazione minimale di un pianeta ormai collassato nei propri rifiuti e nei propri orpelli consumistici.

Quanto vissuto da Rosaura e Sigismondo (Hipógrifo violento) e da Fenix (Flowers like stars?) è sì riconoscibile forse solo da chi edotto delle opere letterarie, ma dai corpi delle performer incastonati in ambienti così diversamente trasparenti si irradia il concreto pulsare dell’esistenza attraverso figure che diventano archetipiche, paradossalmente assolute proprio grazie alle individualità carnali che le personificano.

La costruzione performativa è radicale (nel caso di Valentina Barbarini a tratti ossessiva), ma, pur mostrando constantemente la tensione al rischio, i loro corpi non si riducono mai a meccanica – come spesso accade nelle sterili composizioni spacciate per arte contemporanea – e il loro abitare la scena non è mai da involucri passivi, nonostante l’ecologia scenica le costringa a continue genuflessioni da cui stoicamente sarà sempre più complesso rialzarsi.

A un passo dall’autodistruzione, sospese tra interpretazione ed esposizione, Rosaura/Sigismondo/Soncini e Fenix/Barbarini riscoprono continuamente di poter rinascere una volta giunte al proprio limite e dopo aver attraversato, rispettivamente, l’abisso della relazione tra donna/uomo e il lacerante squilibrio vissuto da chi intraprende esperienze di autentica introspezione.

Le loro identità sono metamorfiche e ferite, il loro percorso si mostra rizomatico e labirintico nell’intraprendere fino alla fine una messa in scena irripetibile, irriducibile e che, per Soncini, «non ha bisogno di apparati scenografici decorativi o di artifici tecnologici, ma si ostende in un’installazione strutturata in anonimi segmenti materici in ferro», mentre per Barbarini «trae libera ispirazione dalla cinquecentesca Camera della Badessa, nell’ex Monastero di San Paolo a Parma».

Chiusa la fase di ripartenza con Hipógrifo violento, Flowers like stars?, Mondi nuovi (struggente video installazione composta a partire dal montaggio di precedenti imagoturgie lenziane ispirate a Calderón de la Barca) e Altro stato con Barbara Voghera (cui non abbiamo assistito), l’attesa per la venticinquesima edizione del Festival Natura Dèi Teatri, che si svolgerà a Parma dal 10 novembre al 18 dicembre e che sarà «totalmente interpretata dalle opere performative di artiste di diversa generazione e provenienza e dalle riflessioni di protagoniste e studiose della scena contemporanea», non potrebbe essere più alta.

Flowers like stars?
da Il principe costante di Pedro Calderón de la Barca
traduzione, drammaturgia, imagoturgia Francesco Pititto
installazione, regia, costumi Maria Federica Maestri
interprete Valentina Barbarini
musica Claudio Rocchetti
cura Elena Sorbi
organizzazione Loredana Scianna
amministrazione Ilaria Stocchi
ufficio stampa, comunicazione, promozione Michele Pascarella
cura tecnica Alice Scartapacchio
assistente tecnico Marco Cavellini
media video Doruntina Film
produzione Lenz Fondazione
durata 50 minuti

Hipógrifo violento
{ My Violent Hippogriff }
da La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca
traduzione, drammaturgia e imagoturgia Francesco Pititto
regia, installazione, costumi Maria Federica Maestri
interprete Sandra Soncini
musica Claudio Rocchetti
cura Elena Sorbi
organizzazione Loredana Scianna
amministrazione Ilaria Stocchi
ufficio stampa, comunicazione, promozione Michele Pascarella
cura tecnica Alice Scartapacchio
assistente tecnico Marco Cavellini
media Video Doruntina Film
produzione Lenz Fondazione
durata 50 minuti