Partigiano della dignità

teatro-studio-uno-roma-80x80Un inno all’azione e alla cultura concreta, lontana dai salotti buoni dei philosophes. Al Teatro Studio Uno di Roma va in scena la favola rivoluzionaria di Brendulo.

Questa bella storia comincia nel 1860, più o meno, quando l’Italia sta nascendo, quando tutto sta cambiando e molti vogliono che tutto rimanga com’è.
Brendulo è il figlio dei mezzadri e il suo inseparabile amico è Giulio, il figlio dei padroni. La coppia funziona: Brendulo insegna al suo amico paffutello a saltare tra i tetti e ad arrampicarsi come un gatto sugli alberi, Giulio insegna al “folletto dei boschi” a leggere e scrivere. Non si sa cosa Giulio abbia fatto della sua scoperta agilità, ma certo Brendulo ha fatto tesoro di quanto appreso. Tra le pagine dei libri, trova un mondo mai scorto dalla cima degli alberi, dove gli uomini sono tutti uguali. Capisce che è l’ignoranza a piegare in due i contadini sopra la terra e che bisogna istruirsi e agire per non subire più soprusi e debellare quell’ingiustizia incancrenita di schiavi e padroni. «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza! Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza!», questo grida Brendulo ai suoi contadini e infuoca gli animi e arringa i capannelli che crescono, man mano che i contadini capiscono di poter realizzare un mondo diverso con le stesse braccia che ogni giorno lavorano una terra che non gli appartiene.
La narratrice sceglie un tema lontano, la mezzadria e le rivolte dei primi contadini socialisti, per parlare “ai” giorni nostri. Porta il pubblico a identificarsi con i contadini e a tifare per Brendulo. Lo spettatore accosta ai fatti narrati la sua situazione personale, la realtà politica, la condizione sociale e la considera dall’esterno con oggettività fino a vedere la soluzione a un nodo che dall’interno sembra inestricabile: agire, essere cittadini attivi e non passivi, conoscere per non rimanere nell’ignoranza, perché quella, e nient’altro, relega il popolo a un’immeritata sottomissione. Non si può rimanere a guardare, non si può stare zitti e accontentarsi, non si può non per noi che sopravviviamo nel presente, ma «per i figli che avremo». Brendulo, ovvero il Che Guevara delle colline scuote le coscienze, fa indignare chi ha la soluzione davanti agli occhi ma rimane paralizzato nel mutismo di chi crede di avere ancora qualcosa da perdere: un po’ di pane, gli avanzi del padrone, il quieto vivere di chi non si ribella.
Silvia Frasson si definisce «narratrice immaginifica», ma le si addice anche la definizione di “narratrice immaginogena”, per la sua capacità di generare immaginazione nelle menti degli spettatori, indotti a vedere i luoghi, a toccare i personaggi che narra, a respirare gli odori che le sue parole emanano, a sentire i rumori che risuonano sulla scena, solo con il racconto, i gesti e l’accompagnamento sapiente delle note musicali. In questo spettacolo è la fisarmonica di Stefania Nanni a fare da contraltare alla voce di Frasson, uno strumento agitato, impetuoso e complesso, cugino nobile di quell’organetto che è l’espressione più gioiosa delle feste contadine. Nanni e la sua fisarmonica contribuiscono a tratteggiare qualcosa di molto concreto, una scenografia incorporea, una scena che non c’è, ma si vede.
Lo spettacolo, come tutte le favole, quelle che hanno una morale e un insegnamento, non come le fiabe, eteree e sempre a lieto fine, è molto complesso nella sua semplicità. I piani di lettura sono molteplici, presentando un livello letterale e uno metaforico, mentre il testo risulta intriso di riferimenti letterari. La rivolta di Brendulo, infatti, è una delle tessere che compongono il mosaico più grande della storia di emancipazione dell’uomo e della sua pretesa di dignità, un’opera che parte dai tribuni della plebe Caio e Tiberio Gracco, continua nelle rivolte popolari dei secoli successivi, nel socialismo del ‘900 e nel cristianesimo popolare di Don Lorenzo Milani, il parroco di Barbiana che insegnava ai suoi alunni che per essere uguali agli altri dovevano imparare a leggere e scrivere. I rimandi culminano nella lettera d’amore e di lotta, degna di Brendulo, ma nata dalla penna di Antonio Gramsci.
Le citazioni, eleganti e discrete, sono funzionali a dimostrare che l’uomo, nella sua lunga storia, si trova ciclicamente a dover riaffermare gli stessi diritti e non può mai lasciarsi andare all’illusione di averli conquistati una volta per tutte.
Bisogna temere davanti a chi dice che il passato è inattuale, perché significa che l’ignoranza sta di nuovo guadagnando terreno. Gli uomini moderni sono come nanos gigantium humeris insidentes, come nani sulle spalle dei giganti, diceva Francesco Bacone, perché possono guardare più lontano, poggiando sull’esperienza dei loro predecessori. Quello che succede quando scendono dalle loro spalle, la triste fine dei nani, è cosa da evitare.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Studio Uno
via Carlo della Rocca, 6 – Roma
fino a domenica 20 ottobre, ore 21.00
(durata un’ora e un quarto circa)

Brendulo, ovvero il Che Guevara delle colline
di e con Silvia Frasson
musiche eseguite in scena da Stefania Nanni