L’orgoglio nostalgico della diversità

Al teatro Belli di Roma, all’interno della rassegna Garofano verde, a cura di Rodolfo Di Giammarco, in collaborazione con L’Assessorato alle politiche Culturali e Centro Storico e Società per Attori, è andato in scena Cala ‘a saudade, drammaturgia e regia di Giuseppe L. Bonifati.

Una scena buia con musica lontana come sottofondo. Suoni dispersi eppure presenti, affascinanti e angoscianti di fisarmonica accompagnano l’ingresso e la narrazione dei due protagonisti di questa storia. Due trans, Anna e Beatrice, sognano il Brasile come terra promessa. Sognano la libertà, l’amore indiscriminato per il proprio corpo e la propria sessualità, il desiderio di evadere da una realtà conformista e “perbene” di una piccola e sperduta cittadina del sud, che costringe il loro coinquilino Costanzo a rinchiudersi sempre più in se stesso, fino all’estremo limite del mutismo; un mutismo nato dalla vergogna di una diversità inaccettabile, insondabile, invivibile, che si tramuterà in tragedia, dopo uno scherzo – orchestrato dai compagni – per scuoterlo dal suo stato di torpore e di rifiuto della condizione di “diverso”.

Una tragedia, un gesto supremo, che farà capire ai due quanto coraggio e fiducia – nel proprio amore, nel voler essere a tutti i costi ciò che si è, nel fuggire ogni maschera ipocrita – ci voglia per accettarsi e farsi accettare senza compromessi, rafforzando quella nostalgia del loro sentirsi diversi (eppure così “uguali” e bisognosi di uguaglianza, di riconoscimento umano, di sentirsi appartenenti a una comunità che si è contribuito a fondare), che emana fortissimo dal fluire appassionante, dalla gestualità asciutta e, allo stesso tempo, marcatamente teatrale, della messa in scena.

Una diversità che Anna e Beatrice rivendicano con forza e orgoglio, senza chinare la testa né sottomettersi al ricatto di una coscienza civile fatta di normalità e abbrutimento al senso comune più gretto, interessato a mantenere inalterato lo status quo, impedendo qualsiasi genuina espressione di trasformazione creativa, in una mondanità sempre più grigia e omologante. Ed è precisamente questa loro in-coscienza vitale, di oltraggio corporale, di “o-scenità” esistenziale, che gli permette di instaurare con lo spazio circostante e con la scansione ritmica della musica un dialogo effervescente, dinamico, di domande senza risposte, di spasmodica autoanalisi, di disamina impietosa di un io in crisi permanente, una grammatica dell’amore e del sogno tipicamente adolescenziale della fuga, della realizzazione intima in un luogo “perfetto” della mente e dei desideri più autentici ed elementari, nati dalle fantasie scolastiche, dalle prime confidenze sui banchi di scuola.

Un palco nero vuoto riempito dall’inesauribile ricchezza espressiva della dialettica corpo-gesto in quanto parte-tutto – tipica della drammaturgia di Bonifati e dell’interpretazione-acquisizione di Tabita –, una luce interiore intermittente che segnala la precaria presenza e il lento, inevitabile consumarsi di Costanzo, la narrazione quasi fiabesca della fisarmonica di Francesca Palombo (che evoca così bene le malinconie dell’impossibile felicità, “la fine dell’estate” di felliniana memoria) consentono a Cala ‘a saudade di resuscitare nello spettatore una dimensione familiare, una sorta di dejá vu emotivo, sepolto nell’oblio della routine: tempi in cui i bambini giocavano e ridevano senza paura della loro esistenza, del loro essere qui e ora, senza progetti né ansie di protagonismo, senza dover spiegare agli altri e a se stessi cosa fossero e cosa volessero diventare, senza aspettative né responsabilità di sorta; uomini tra uomini, felicità tra felicità, passioni tra passioni, anonime, naturali, cresciute attraverso i mille rivoli del desiderio di essere ciò che si è, rincorrere un’immagine o un volto amico, una stagione o un’impressione, con l’orgoglio e la nostalgia della diversità nelle proprie mani, realizzandosi in un orizzonte in cui realtà e sogno fondano l’autentico essere al mondo dell’uomo.

In questo senso, nel suo Decameron Pasolini ha colto una verità: “perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla?” L’unica speranza, diceva Carmelo Bene, non è quella di vivere una vita come fosse un capolavoro, ma «fare della propria vita un capolavoro»; un impegno civile e potremmo dire morale, di civiltà, di rispetto di sé, della propria sacra e inviolabile intimità, attraverso cui Anna e Beatrice, seppur con tutte le loro paure, debolezze e contraddizioni, hanno deciso di abitare questo stanco mondo. Un impegno che tutti – davvero tutti  – gli uomini devono saper cogliere.

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Belli
Piazza S. Apollonia, 11/a – Roma
fino a sabato 18 giugno, ore 21.15
 
Cala ‘a saudade
di Giuseppe L. Bonifati
regia Giuseppe L. Bonifati
con Luigi Tabita, Giuseppe L. Bonifati
fisarmonica Francesca Palombo