Se la virtù non sta nel mezzo

Recensione Cantico dei Cantici. Roberto Latini, al Teatro Vascello di Roma, con il più sublime tra i cantici di Re Salomone.

È, come (quasi) sempre, con poetica e ingenua lucidità che Roberto Latini annuncia la propria regia. L’intenzione è di presentare un Cantico dei Cantici «senza riferimenti religiosi e interpretativi, smettendo possibili altre chiavi di lettura, rinunciando a parallelismi» e, «senza pretesa di cercare altri significati», farlo apparire «all’improvviso, col suo profumo, come in una dimensione onirica, non di sogno, ma di quel mondo, forse parallelo, forse precedente, dove i sogni e le parole ci scelgono e accompagnano».

Cercando di recuperare in quei versi empatia ed erotismo, purificandone quanto intriso dalla tradizione religiosa (le connotazioni allegoriche relative all’amore di Dio per il suo popolo naturale/Israele e/o per la sua comunità istituzionalizzata/la Chiesa), Latini si propone, di conseguenza, di farne «un inno alla bellezza, insieme timida e reclamante, un bolero tra ascolto e relazione, astrazioni e concretezza, un balsamo per corpo e spirito».

Come già in Ubu Roi e ne I Giganti della Montagna, si assiste allora a un tentativo di rinnovamento con finalità eversive, ossia di rovesciamento dell’ordine teatrale costituito. Un ordine, nel caso di questo Cantico, incrostato dalla sedimentazione di fallaci elementi teologici, una contaminazione dalla quale – «senza badare a quale sia la divisione dei capitoli, le parti, se si prova a stare nel suo movimento interno, nella sua sospensione» – Latini cercherebbe una liberazione drammaturgica attraverso due soluzioni però zoppicanti nel recuperare/rinnovare le origini di un poema (in verità) già declinato più sulla sensualità, sulla dolcezza e sul coito dell’amore che sulla sua dimensione sacra e divina. Dunque su sfumature allusive di quanto umano, troppo umano possa esistere nell’immaginifica potenza del desiderio, nel drammatico dolore della distanza, nella ricerca dell’orgasmo, nel lacaniano «incontro […] che segna in ognuno di noi la traccia del suo esilio», in sintesi, nell’amore tra esseri umani.

La prima delusione non giunge, purtroppo, inattesa. Infatti, traducendo «alla lettera [non] le parole, sebbene abbia cercato di rimanervi il più fedele possibile», ma «la sensazione, il sentimento […] il tempo, tempo del respiro, della voce e le sue temperature», l’attore e regista romano cerca «di non trattenere le parole, per poterle dire, di andarle poi a cercare in giro per il corpo, di averle lì nei pressi, addosso, intorno».

Latini prova, allora, «a camminarci accanto, a prendergli la mano, [chiudere] gli occhi e, senza peso, a dormirci insieme», ma rimane teneramente incagliato in un esperimento di decostruzione del testo attraverso una drammaturgia vocale rispetto alla quale la sua ricerca sembra aver ormai – e da tempo – esaurito la propria spinta propulsiva, ottenebrata da qualità non in grado di spezzare una pesante impressione di forzata disomogeneità.

Improvvisa, invece, la seconda (delusione), ossia la pericolosa china di quella che finora avevamo riconosciuto essere la superba capacità di Roberto Latini di restituire l’ecologia scenica in creazioni dall’assoluto valore estetico, anche quando non necessariamente originali o quando esito di una compulsiva ansia di novità a tutti i costi (come nel caso degli spettacoli sopracitati).

Proposta in una messinscena di indubbia metateatralità, densa del solito citazionismo (la panchina e l’albero richiamano l’attesa di un amore/Godot) e sostanzialmente statica nell’ingabbiare il protagonista dietro uno studio radiofonico dal quale lo vedremo momentaneamente evadere in danze antidoto alla frustrazione più che di liberazione, la definizione di chi ama nei termini di uno struggente narcisista o di un inguaribile nostalgico viene a complicarsi in una restituzione tanto intellettualistica e povera di innovazione (il DJ come l’artista e l’amante non potrà mai colmare la distanza della maschera sociale quale presupposto per assolvere l’essere autenticamente e tragicamente se stessi), quanto barcollante in una intrinseca autoreferenzialità, per nulla elevata da un impianto sonoro (Every me Every you dei Placebo, A far l’amore comincia tu secondo Bob Sinclar, suggestioni morriconiane da C’era una volta in America) posizionato su una coerente linea di pallida medietà espressiva.

Un Cantico dei Cantici né pop,radical.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro Vascello
via Giacinto Carini, 78, Roma
dal 19 al 22 aprile 2018
dal giovedì al sabato 21 – domenica 18

Fortebraccio teatro presenta
Cantico dei Cantici
adattamento e regia Roberto Latini
musiche e suoni Gianluca Misiti (Premio Ubu 2017 come Miglior progetto sonoro o musiche originali)
luci e tecnica Max Mugnai
con Roberto Latini (Premio Ubu 2017 come Miglior attore o performer)
organizzazione Nicole Arbelli
produzione Fortebraccio Teatro
con il sostegno di Armunia Festival Costa degli Etruschi
con il contributo di MiBACT, Regione Emilia-Romagna
durata 50 minuti senza intervallo