La lingua è la culla del presente

Viene dal mare come un’antica sirena, una cantastorie, una magara (strega in dialetto), una poeta Elena Bucci in Canto alle vite infinite, spettacolo in anteprima nazionale che l’attrice, drammaturga e regista ha portato per la prima volta in scena a Primavera dei teatri al Teatro Sybaris di Castrovillari.

In scena lei sola, audace come uno spirito, guerriera che si nutre di parola come spada che sanguina verità. Forte come una madre, bella come una femmina che ha almeno tre generazioni dentro e le dà tutte alla luce attraverso le storie che, a passo lento, con un lume in mano, racconta dando corpo a tutte le voci che ci abitano, come portate dal mare sulla spiaggia in un tramonto d’inverno. È un viaggio questo monologo del ritorno, dove tutto è anima e luce e la parola lo abita sovrana dal racconto al Canto, una ninna nanna che ha il colore del mare nei preziosi giochi di luce di Loredana Oddone che formano immagini del tempo, stagioni dei ricordi, terre lontane eppure così vicine, anche alla nostra. È lingua che canta la terra, nella bellezza di un dialetto che abbatte confini e diventa universale nell’alterità e diversità che ci accomuna tutti, per richiamare un’umanità perduta dietro alle guerre, all’impotenza dei fenomeni atmosferici, che assiste disarmata allo spadroneggiare dei poteri forti, alla disgregazione dei valori e l’urgenza di ritrovarla dentro allo splendore del teatro, al coraggio degli amanti, alla follia dei poeti, alla miseria dei contadini, alla magia dei libri dove ognuno è una storia.

In ciascuna delle vite prese a prestito dal difficile presente che incarna con un uso sapiente e magistrale della voce, Elena Bucci si fa musica, parola, carne, vena, suono, rivelazione del teatro dentro al teatro che mette alla prova il sapere e ci fa ritornare, attraverso il Canto, bambini per restituirci l’innocenza e farci capire dove e quando l’abbiamo perduta. Dove e quando, allora? Forse dentro all’infanzia di fiabe mai ascoltate e raccontate di figlie bestemmiate dalla nascita perché femmine, portatrici di verità troppo evidenti e scomode, creature idealizzate nel sogno o imprigionate nella tradizione, ma qui finalmente protagoniste di un Canto, né vincitrici, né vinte, né eroine, né schiave. Non solo madri, vedove, figlie, mogli, ma finalmente poete che aprono il cuore anche se hanno la tragedia dentro, scrittrici, attrici, cantanti, infinite Penelopi che tessono una storia comune che disegna il futuro, guardando le stelle.

Non c’è retorica nel Canto, almeno quando non si citano i luoghi comuni per prenderli in giro, solo la nostalgia di una terra da cui si parte, si torna, si va e si viene, dove tutto muta, in un tempo perduto, e non si è più gli stessi, dopo essere stati nel bosco, nella dimora della strega, alla luce degli scheletri, tra i rumori dei nostri fantasmi. Perché solo nelle case abbandonate di campagna, lontane dall’idiozia della pubblicità e dai centri commerciali, in quel paese abitato da pietre, chiese e fontane, dove pure l’aria racconta qualcosa, si può fare la rivoluzione, restando e allo stesso tempo volendo provare il gusto di andarsene via, emarginati e stanchi, ma ancora pieni di vita e di idee, affamati di storie. Qui tra la palude e la nebbia emerge la parte più vera del Canto, sul cammino della pagina bianca che sostiene l’essenza e non scivola via, ma restituisce purezza, scuotendo le coscienze come un terremoto, in un vortice dentro al labirinto della parola che sconvolge, scava, spaventa, rinasce con quel colore particolare, quel timbro unico dell’interprete straordinaria che diventa tutta voce, dentro all’imprecazione, al suono, al Canto che abbatte muri e confini e passeggia fra il bianco e il nero dove sceglie se stessa sulle note di un pianoforte che sprofonda tra bambole e diavoli, vivi e morti, telegiornali e sorveglianti di (troppa) sicurezza in previsione di una normale Apocalisse e su quel confine chiude gli occhi e passa, tra le righe e le rughe, i padri e gli assassini, i vecchi e i bambini, i cacciatori e i sognatori, il fare e il sapere, il giorno e la notte, il pubblico e l’attrice. Lei. Unica e intensa. Immensa Elena Bucci, cammina sospesa sul confine tra palcoscenico e mondo che ha perso le parole, restituendocele attraverso l’essenza della poesia e la verità che è dei folli, degli anziani, dei poeti e dei bambini, allattandoci alla sua lingua, ci nutre di parola e di visione, ricordandoci delle vite infinite che da sempre ci abitano e non ci lasciano più, come dentro a una culla, dove nessuno, da oggi, è più orfano.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno di Primavera dei Teatri
Teatro Sybaris
Contrada Calandrino, 14C Castrovillari
30 maggio ore 20.30

Canto alle vite infinite
drammaturgia, regia e interpretazione di Elena Bucci
luci Loredana Oddone
registrazioni, drammaturgia sonora e cura del suono Raffaele Bassetti
assistente all’allestimento Nicoletta Fabbri
scene Nomadea
costumi Marta Benini
grazie a Marco Sgrosso
produzione Le Belle Bandiere
con il sostegno di Regione Emilia-Romagna, Comune e Teatro Comunale di Russi