Decostruzione di un mito

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Enzo Moscato e Mario Martone riscrivono il mito di Carmen nel segno di Napoli.

Tutto nasce da una commissione. Mario Martone chiede a Enzo Moscato di scrivere un testo sul personaggio di Carmen, partendo dall’opéra-comique di Georges Bizet (su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy), ma risalendo al racconto di Prosper Mérimée.
L’idea, come lo stesso regista ha riconosciuto, parte anche da un celeberrimo spettacolo di Peter Brook, La tragédie de Carmen del 1981. Ma mentre il regista inglese lavorava per sottrazione sull’opera di Bizet (la cui partitura orchestrale era stata trascritta dal musicista Marius Constant per pochi strumenti), alla ricerca di un archetipo femminile irraggiungibile, Moscato e Martone, applicando una semplice equazione (Carmen è Napoli e Napoli è Carmen), insistono sulla commistione, amano sporcare il segno e mescolare tradizioni diverse, colte e popolari: al melodramma si aggiunge il teatro di Raffaele Viviani (di cui il regista ha già messo in scena I dieci comandamenti), lo spettacolo di varietà, la sceneggiata napoletana, avvalendosi della presenza essenziale dell’Orchestra di Piazza Vittorio diretta da Mario Tronco, un ensemble multietnico, nato nel 2002 nel quartiere Esquilino di Roma.
Enzo Moscato per l’occasione ha scritto un testo molto articolato, Lacarmén, che Martone ha adattato con libertà, rinnovando la proficua collaborazione che nel 1991 ha prodotto lo straordinario Rasoi.
E se la novella di Mérimée è una rievocazione da parte di don Josè della sua passione per una sensuale sivigliana mentre attende la condanna a morte, il drammaturgo poeta immagina che la storia di Carmén, una procace popolana napoletana, sia raccontata non solo dal giovane soldato in prigione, ma dalla stessa donna e persino dal taverniere Lilà Bastià: ogni scena è di fatto una evocazione ricostruita da diversi punti di vista. Con eccessivo scrupolo, moltiplicando le voci narranti, Moscato ci offre così l’interpretazione maschile e femminile, la prospettiva dentro e fuori la storia.
Cosè è un giovane bietolone settentrionale, precipitato in una città che non capisce, disarmato di fronte alla passionalità debordante di una donna meridionale, di cui si è invaghito e per la quale tradisce l’arma a cui appartiene. Carmén si definisce “puttana e filosofa”, cioè femmina di antica sapienza. Attorno a loro malavitosi di quartiere, prostitute, tavernieri, poliziotti corrotti. Potremmo essere nella Napoli del dopoguerra, ma anche in quella del dopo terremoto degli anni Ottanta o in quella odierna e multietnica. Il torero di Bizet si trasforma così in un cantante di piazza e morirà durante la festa di Piedigrotta. La donna non è uccisa, ma ferita agli occhi dal giovane amante, e con orgoglio nel finale dichiara di non essere morta. Diventerà la maîtresse di un bordello, una sorta di Irma del Balcone di Jean Genet, un’eroina tragica privata della vista: come Napoli, Carmén dialoga continuamente con la morte, ma non muore mai.
L’operazione di Moscato raggiunge i risultati più interessanti in alcune riscritture dialettali di celebri passi (“L’amore è n’auciello furesto/A nisciuno fedele, si onesto“), quando cioè la parola, nella parodia, ritrova naturalmente una musicalità popolare, mentre ristagna in alcuni prevedibili e raziocinanti passaggi. Troppo spiega l’autore, su troppo discettano i personaggi, col risultato di raffreddare un mito fortemente perturbante.
Le scene di Sergio Tramonti ricreano una Napoli buia e misteriosa, illuminata da squarci di luci (Pasquale Mari). Due grandi parallelepipedi ricreano vicoli e viuzze, la cella di un carcere e il bordello, si aprono a libro e riproducono con dettagli calligrafici ora il commissariato di polizia, ora la taverna di Lilà Bastià. Dal fondo appare un carro sonoro della festa di Piedigrotta in cui si consuma il dramma di Cosè e Carmén. Un sipario materico, che rappresenta un mare dai mille riflessi, precisa sin dall’inizio la mediterraneità partenopea dell’azione.
Lo spettacolo è costruito attorno a due attori di razza come Iaia Forte e Roberto De Francesco.
Iaia Forte, con dizione fortemente scandita come se si stupisse a ogni parola pronunciata e con fisica impudicizia, offre l’immagine di donna dalla potente carnalità, antica icona della femminilità e simbolo di una città vitale e devastata insieme, mentre Roberto De Francesco insiste sull’imbarazzato disagio del personaggio e gli conferisce una sofferta dolenza. Lilà Bastià è il bravissimo Ernesto Mahieux (l’indimenticabile protagonista dell’Imbalsamatore di Matteo Garrone), mentre Giovanni Ludeno è un ottimo tenente Zuniga (e il suo spettro in una suggestiva scena).
Punto di forza dello spettacolo è l’Orchestra di Piazza Vittorio: con vitalità straordinaria i bravissimi musicisti non solo accompagnano musicalmente l’azione, ma spesso scavalcano la buca, invadono il palcoscenico e si trasformano in attori dalla fortissima presenza, regalando allo spettatore i momenti più trascinanti della serata.

Lo spettacolo continua
Piccolo Teatro Strehler
Largo Antonio Greppi 1, Milano
dal 5 al 17 maggio 2015

Carmen
di Enzo Moscato
adattamento e regia Mario Martone
direzione musicale Mario Tronco
con Iaia Forte, Roberto De Francesco, Ernesto Mahieux, Giovanni Ludeno, Anna Redi, Francesco Di Leva, Houcine Ataa, Raul Scebba, Viviana Cangiano, Kyung Mi Lee
arrangiamento musicale Mario Tronco e Leandro Piccioni
musiche ispirate alla Carmen di Georges Bizet
esecuzione dal vivo Orchestra di Piazza Vittorio (in ordine alfabetico) Emanuele Bultrini, Peppe D’Argenzio, Duilio Galioto, Kyung Mi Lee, Ernesto Lopez, Omar Lopez, Pino Pecorelli, Pap Yeri Samb, Raul Scebba, Marian Serban, Ion Stanescu
scene Sergio Tramonti
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper
coreografie Anna Redi
produzione Fondazione Teatro Stabile Torino / Teatro di Roma