Ritratti d’Autore. Il teatro come scelta d’amore

Premessa. Caterina Simonelli è un’amica ed è giusto che il lettore lo sappia. In generale, a Persinsala evitiamo di recensire o intervistare i protagonisti del mondo del teatro o dell’arte con i quali ci capita di cenare – giusto per evitare di cadere sull’immancabile buccia di banana del familismo Italian style. Ma Caterina Simonelli è anche un’autrice, una regista e un’attrice che seguiamo da anni, come redazione. Per questo, ci sarebbe sembrato ingiusto, dopo la sua meritata vittoria al Fringe Festival di Roma come Miglior attrice per l’interpretazione di RealLear (un testo di cui è anche autrice e che denota una grande maturità a livello di scrittura unita a una profonda sincerità), impedirci di incontrarla e farci raccontare il suo lavoro proprio perché un’amica. Premessa fatta, è a lei che chiediamo perché, dopo tanti anni trascorsi al Piccolo di Milano, anche come aiuto regista di Luca Ronconi, abbia deciso di tornare in Toscana.  

Caterina Simonelli: «Per amore. Io appartengo a questa terra. Le mie radici sono qua e non potevo fare questo lavoro altrove. A Viareggio (dove ha la sede operativa l’Associazione If Prana, di cui Simonelli è parte, n.d.g.) e in tutta la Versilia c’è bisogno di teatro, di cultura, di uno sguardo diverso per creare nuovi orizzonti. Qui si vive sei mesi l’anno, quando si va al mare a farsi una birretta. Ma l’estate finisce, i turisti se ne vanno e gli abitanti non scompaiono in una valigia che si riaprirà l’anno successivo. Nei mesi invernali si crea come un vuoto che, secondo me, va riempito di contenuti, in modo che non si arrivi all’estate pronti a offrire le solite proposte culturali compiacenti verso un certo tipo di turismo. Bensì qualcosa di diverso, costruito attraverso un lavoro di radicamento sul territorio. Un territorio, quello toscano, ricco di storia, teatri, cultura. Eppure, qui in Versilia, si sono completamente dimenticate le nostre tradizioni. Faccio un esempio. Quando ero piccola, mio padre mi raccontava che la sua prozia era una maggiante. E quando, in paese, si costituiva la Compagnia per il Maggio (canto popolare e tradizionale ancora vivo nell’area tosco-emiliana, n.d.g.), si appassionavano tutti così tanto alla rappresentazione che quello a cui toccava fare Giuda era ghettizzato dall’intero paese: non lo si invitava più a cena, lo si sdegnava. Purtroppo questo genere di tradizioni, che erano un collante forte per la popolazione, si sono perse, sono come svaporate sotto una pennellata superficiale di smalto».

Passare da una struttura affermata come il Piccolo di Milano a un’Associazione come If Prana che produce teatro, ma anche attività culturali per le scuole e il territorio, cosa ha significato per te come artista e come donna?
C. S.: «Riprendere il mio posto. Negli anni di scuola e poi di lavoro sul o dietro il palco del Piccolo, non sapevo dove posizionarmi. Non riuscivo a trovare in quella istituzione – per quanto illustre – la mia identità teatrale. In Versilia è stata, ed è durissima. Ho ricominciato da una stanza, in una scuola abbandonata, senza riscaldamento, contando solo sulle mie forze, precisando il mio modo di intendere il teatro, la mia poetica, la mia idea di pensare a questo lavoro – che è legata a quel progetto culturale più ampio di cui parlavo prima. Questa scelta è servita a centrarmi. Come se, durante un’assemblea d’istituto, mi avessero passato il microfono per dire la mia. All’inizio non avevo parole. Non riuscivo a formularne una di senso compiuto. Poi, pian piano, facendo spettacoli, sbagliando, cadendo e rialzandomi, ho cominciato a crescere. Perché un conto è entrare in sala, il primo giorno di prove, e poter contare sul macchinista che ti sposta persino la sedia, e un altro è arrivare e inchiodare le quinte, appendere i fari, pulire per terra».

Quali problematiche affrontano le Compagnie fuori dagli ex Stabili?
C. S.: «Non c’è mercato. Si può lavorare fino allo sfinimento ma quello che si produce non è assorbito dal sistema. Su questo punto sono un po’ pessimista. Gli ex Stabili si occupano d’altro – anche se non ho capito bene di che cosa. Le giovani Compagnie che vorrebbero tanto fare teatro, sono sfibrate, non hanno più tempo, perché quel tempo è assorbito dalla sopravvivenza: chiamare l’assessore, cercare gli spazi, fare promozione. Non dico che non arrivino a fare spettacoli ma non hanno più le forze per fare teatro, ossia per portare avanti una propria ricerca, una propria idea, una propria poetica. Secondo me, in Italia si possono fare altre cose, anche dignitosissime, ma non teatro. E le giovani Compagnie, al massimo, mantengono accesa la fiammella dello spettacolo dal vivo. Ormai si può solo aggrapparsi morbosamente a ciò in cui si crede, proteggendolo da quelle dinamiche che tendono a sciogliere le Compagnie, a creare malumori, a separare le persone che lavorano insieme. Dobbiamo fare tutti quanti lo sforzo di tenerci stretto quel côté umano che ci ha fatto scegliere, magari quindici anni fa, di fare l’attore».

Quest’anno è arrivato il Premio come Miglior attrice al Fringe Festival di Roma. Un bilancio dell’esperienza?
C. S.: «Naturalmente sono contenta del premio, sebbene non possa tacere alcune problematiche. Purtroppo troppi Festival, ma anche troppe Compagnie teatrali, oggi, non hanno finanziamenti sufficienti per avere le professionalità e gli spazi indispensabili per le loro attività. Siamo arrivati a un punto in cui ci autosfruttiamo solo per non perdere l’occasione – che pensiamo sempre sia l’unica. Ma così non si può andare avanti. Ci vogliono grandi competenze e, nel caso di un Festival, è necessario che gli organizzatori siano ben consci che un attore – o una Compagnia – ha bisogno di alcuni strumenti di base per poter lavorare. Altrimenti si creano situazioni poco gestibili e, come performer, ci si sente schiacciati, triturati. Teniamo conto che al Fringe, come in altri Festival, le Compagnie non ricevono compensi e che la contemporaneità delle performance non aiuta a porsi nel modo migliore di fronte al pubblico, anche a causa degli spazi inadatti che non impediscono la sovrapposizione delle voci recitanti. Gli organizzatori del Fringe fanno quello che possono con i loro mezzi davvero esigui. Ma la mia richiesta è più generale, va aldilà del caso specifico: bisogna mettere l’attore in situazioni nelle quali possa proporre il suo lavoro al meglio. E questo è indispensabile perché tra il pubblico – al Fringe, in particolare – possono esserci operatori, critici, registi, persone che potrebbero scegliere quello spettacolo per i loro spazi. Dobbiamo tutti quanti chiederci, in primis noi attori, ma anche gli organizzatori, fino a che punto possiamo reggere questo sistema, un sistema che non ha più senso, che non crea contenuti, socialità, crescita, radicamento, integrazione. Nulla. In realtà, stiamo rianimando un morto».

RealLear è il primo testo firmato da Caterina Simonelli. Da dove nasce l’esigenza di riscrivere una tragedia shakespeariana?
C. S.: «Durante le prove del Lear, diretto da Roberto Bacci, mentre ero in quinta, sentivo questo testo fluttuare intorno a me e, dentro di me, aprirsi un grande vuoto. Un testo che sembrava pormi delle domande rispetto a un vissuto personale. Da questa sensazione sono partita per estrapolare alcune scene e creare ponti con la mia storia. È stata la prima volta che ho deciso di scrivere un testo originale. Per me, le parole hanno un grande fascino. Sarà perché ho studiato con Luca Ronconi, ma ho sempre avuto un timore reverenziale per la scrittura. Anche quando è rivolta al teatro. Delle infinite rappresentazioni del King Lear, ciò che rimane, la sua matrice, è il testo. E se sono pochi gli scrittori, ancora meno sono i drammaturghi. Perché se si scrive per la scena non si è liberi come davanti a una pagina bianca. Si deve conoscere bene la macchina teatrale e, soprattutto, si deve essere consapevoli che la parola recitata ha un proprio corpo, e occuperà uno spazio. Del resto io non ho scritto RealLear, l’ho detto. Ricordo che verbalizzavo dei nuclei, mi registravo e poi sbobinavo, tagliavo, mettevo a posto. E così facendo ho scoperto quanto fosse bello trovare delle forme, il loro andamento, la loro ossatura, o al contrario la loro leggerezza, la levità, il loro scivolare via».

Il nuovo lavoro, Family Affaire, è ancora la rielaborazione di una tragedia, in questo caso greca. Come mai questa scelta e, soprattutto, il mito ha ancora la forza di parlare all’uomo contemporaneo?
C. S.
: «La verità vera è che noi dovevamo ideare questo spettacolo, ora, per rispondere ai criteri regionali di finanziamento alla produzione. Da questa necessità oggettiva, ho recuperato un vecchio progetto: anni fa avevo iniziato a lavorare su che cosa ci rende ciechi. Ossia sulle azioni coatte che, nella vita, siamo costretti a fare e che ci condurranno al baratro. Ho iniziato, quindi, a concentrarmi su cosa ognuno di noi percepisce della realtà e cosa gli sfugge. Ho lavorato su L’arte di vedere di Aldous Huxley, su Cecità di José Saramago, e ovviamente su Edipo Re di Sofocle. E, proprio grazie a quest’ultimo testo, ho compreso che la cecità dipende sicuramente da noi stessi ma anche da meccanismi che possediamo e che ci impediscono di percepire la realtà. Questa prima ricerca è sfociata in un discorso diverso, quello sulla relazione. Mi spiego meglio: pensate a quando si ha una relazione con una persona e la stessa finisce, magari in maniera spiacevole, e ci si sente improvvisamente ciechi perché tutti quelli che ci conoscono ci domandano come mai non ci siamo accorti di quanto loro sapevano. La matrice delle nostre relazioni, senza scomodare Freud, ovviamente sta nei nostri legami familiari. Family Affaire nasce da queste premesse. Dopodiché ho scoperto che le tragedie sono delle macchine, simili a quei giochi per bambini dove c’è una pallina che bisogna imbucare in un percorso spingendola verso il traguardo forsennatamente – il meccanismo è identico. Ma a quel punto mi sono bloccata, mi sembrava che l’Edipo sofocleo non si potesse fare. Perché ci vogliono contenitori forti per sostenere una tragedia. E in una situazione produttiva come la nostra era impossibile. Da questa presa di coscienza mi sono mossa per costruire un apparato drammaturgico altro. E in questo momento mi sto domandando se il titolo sia ancora valido. Perché forse non sono solo affari di famiglia, sono piuttosto blocchi interiori, nodi che dobbiamo scegliere. E sono tornata alla domanda iniziale: la nostra realtà quanto dipende da noi? Perché appena sciogliamo questi nodi, qualsiasi cosa creasse un problema fino a trenta secondi prima, diventa un ostacolo facilmente superabile? Come per Edipo che, appena risolto l’enigma della Sfinge, libera Tebe dal suo flagello. Ma, dato che ha un altro nodo, anche peggiore – ossia l’uccisione di Laio sulla coscienza – ecco che la peste si avventa sulla città. Dovrò parlarne con la mia psicologa… (e ride)».

Foto: Caterina Simonelli legge Quadri d’Interno al Mug di Forte dei Marmi, foto di Luciano Uggè