La staccionata nel bosco

Raffaella Giordano in scena a La Spezia per la Stagione di Fuori Luogo con Celeste. Un recupero (impossibile?) di una vita in natura.

La performer danza. Cerco di abbandonarmi, di farmi guidare, di immaginare. Mi scopro in un bosco (un bosco che, confesso, conosco bene, con i suoi rumori, gli animali, le presenze nascoste, diurne e notturne). Le magie di un bosco sono peculiari: non ci sono effetti speciali o colpi di scena. Si tratta di camminare o sostare, contemplare, perdersi in sé stessi o semplicemente lavorare. A una specie di monotonia, che è ripetizione di gesti necessari, si alternano viaggi della mente improvvisi, scoperte, che nascono da un apparante nulla. Tutto il bosco abbraccia e sostiene, il macrocosmo abbraccia e sostiene il microcosmo.

Dalla scena balenano allo sguardo brevi sequenze. Le stagioni, con una primavera che esplode nel canto degli uccelli ma che è anche manifestazione di vita senza controllo, che trascina in mille direzioni rischiando di far esplodere l’individuo. Una primavera in cui convivono vitalità e distruzione. Allo stesso modo, c’è un’estate che contiene già la decadenza, il frutto che preannuncia la sua morte.

Al vagabondare assorto, immerso in natura ma soprattutto nei pensieri, nei ricordi, si alterna la fatica, annunciata dalla dissonanza delle note, dalla stonatura. Qualcosa rompe l’incanto bucolico, forse il lavoro, la sofferenza. Arriva poi anche una sorta di meccanismo sociale, con l’affacciarsi alla finestra/specchio e la comparsa delle maschere. Come se il vedersi o il mostrarsi, l’entrare in relazione, sollecitasse il formarsi di volti, identità attonite, prive di connotazioni negative. La loro esistenza è comunque effimera, perché tutto viene lavato dalla pioggia. L’acqua porta via le maschere, la fa cadere a terra, rendendole visibili – come tali – all’individuo stesso.

Vi sono ritmi e rituali dimenticati – il passeggiare, il lavorare, l’alternarsi delle stagioni e del tempo (giorni e anni, in quel susseguirsi di caldo e freddo nel bagliore della luce); nascita e morte sono compenetrate una nell’altra, accompagnandosi sempre, così come il binomio natura-naturalità e consapevolezza. Vi sono viaggi da fuori a dentro, e viceversa. Uno specchiarsi, riflettersi e richiamarsi dell’animo umano in ciò che ha intorno, come il ritrovarsi di due entità che si appartengono l’un l’altra. Uomo e ambiente seguono gli stessi ritmi, danzano la stessa danza, vivono gli stessi cicli, e tutto in questa vita, anche la società, anche il lavoro, si interseca con la vita profonda dell’individuo, fino a rendere possibile l’ultima definitiva epifania.

L’artista si muove leggera come una nuvola, senza peso, quasi mossa dal vento, come una foglia. L’effetto del disegno luci (caratterizzato da un’austerità ai limiti del trasandato) è di radura, in cui la luce filtra in mezzo alle piante, con sfumature e intensità diverse.

Le musiche (pericolosamente troppo vicine all’ormai consumato brano di Arvo Part – perché una triade posta in evidenza è pur sempre un marchio riconoscibile) e il tessuto sonoro hanno anch’essi un passo delicato, aereo; mentre le parole si perdono come acqua di ruscello, e solo pochissime sono comprensibili all’orecchio. Il resto è mistero.

Si vive ogni tanto una certa monotonia, l’emozione è sopita, non ci sono particolari climax, ma anche questo potrebbe riflettere un andamento naturale. Ovvero una vita che si sussegue uguale a se stessa ma che, giorno dopo giorno, con la sua bellezza e la sua verità plasma in modo totalmente diverso l’individuo. Non c’è bisogno di rivelazioni eccezionali, perché ogni giorno offre le sue piccole dosi di consapevolezza.

Aldilà delle suggestioni, delle visioni, si fa fatica a cogliere il senso dei vari oggetti utilizzati e sorge un interrogativo fondamentale, ossia di quale natura parli in realtà Celeste. Perché in scena vediamo un pezzo di staccionata? È una delle domande che mi assillano durante lo spettacolo. È soltanto il primo pezzo di legno utile che è stato recuperato? Vuole richiamare espressamente un ambiente antropizzato? Una staccionata, ovvero un recinto, ovvero un ambiente “educato”, non selvatico? Si tratta forse di un segno preciso e cosciente che vuole indicare come la natura selvatica sia, in realtà, qualcosa di rarissimo e che ciò che ci resta è solo un frammento sopravvissuto ma contraffatto e contaminato dall’uomo?

E quei parallelepipedi neri? Sono forse simboli geometrici (in contrasto in ogni caso con la scelta del materiale “legno”) per delle rocce, o – allo stesso tempo forse – anche ostacoli mentali?

Le maschere, a loro volta, sono fogli bianchi con semplici buchi, sono indossate in modo un po’ forzoso, e suscitano il dubbio che si tratti di una scelta non curata, trasandata. Il significato dei segni utilizzati è un mistero dai pochi indizi, perché non c’è praticamente altro in scena, se non una finestrella/specchio disegnata dalla luce sul fondale, e l’abito della danzatrice, in cui terra e cielo si congiungono, in una rappresentazione visiva e immediata di un microcosmo che è e riflette il macrocosmo.

Avvicinandosi al finale, la musica soffre della distorsione del segnale; la tecnologia si intromette e disturba, si rende meno trasparente, si opacizza. Anche qui: si tratta di un problema, di qualcosa di trascurato, o di una scelta consapevole che vuole parlare di inganni, di perdita, di confusione su cosa resta della natura – in questo caso intesa come impulso verso l’espressione, il suono, la melodia? Perché laddove vi è l’opera dell’uomo che media il suo rapporto con essa, vi è un avvelenamento della natura stessa? La Natura, reale, intera, integra, è qualcosa di perduto per sempre?

Lo spettacolo è andato in scena:
Centro Giovanile Dialma Ruggiero
via Monteverdi, 117
La Spezia (SP)
domenica 18 febbraio, ore 21.15

Raffaella Giordano in:
Celeste, appunti per natura
incipit e musiche per pianoforte Arturo Annecchino
incontri straordinari, complicità e pensieri Danio Manfredini e Joelle Bouvier
editing e composizioni astratte Lorenzo Brusci
luci Luigi Biondi
costume realizzato da Giovanna Buzzi, dipinto da Gianmaria Sposito
esecuzione tecnica Piermarco Lunghi
un ringraziamento a Filippo Barraco, Sandra Zabeo, Romana Walther
primo studio aperto presso Complesso di Santa Croce nell’ambito di Prospettiva Nevskij, Bisceglie (BA)
produzione Associazione Sosta Palmizi
con il sostegno di MiBACT, Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo/Direzione generale per lo spettacolo dal vivo; Regione toscana/Sistema Regionale dello Spettacolo

Ph: Andrea Macchia