Lucca in Fest…ival

teatro-del-giglio-lucca1A giugno, quando la maggior parte dei teatri chiude per le vacanze estive, il Giglio ha offerto un’interessante rassegna di spettacoli dedicati al tema del sacro – tra questi, Chi resta, un progetto di Carmelo Rifici.

Emblematicamente inserito in una rassegna dedicata agli interrogativi esistenziali fondamentali (morte, perdono, peccato), lo spettacolo di Rifici si presenta – in prospettiva – solido, strutturato e con buoni margini di miglioramento ma, allo stato attuale, già in possesso di non comuni qualità, tra le quali spicca la giusta personalità per non soffrire affatto la declinazione confessionale del Sacro e la capacità di offrire allo spettatore una visione drammaticamente sincera e artisticamente aperta di un «percorso di elaborazione e [..] confronto con l’altro per giungere, forse, fino al perdono». Visione che, poi, scopriremo costituire il senso e il fine stesso del progetto del regista milanese.

Carmelo Rifici descrive, con la collaborazione drammaturgica di Roberto Cavosi, Angela Demattè e Renato Gabrielli e quella coreografica di Alessio Maria Romano, le storie di protagonisti colpevoli di vivere la morte dei cari attraverso la presentazione di celebri episodi di cronaca (per esempio, relativi all’anarchico Giuseppe Pinelli o all’avvocato Ambrosoli) sotto vesti universali (per questo motivo non si rispetta necessariamente l’essere uomo o donna dei personaggi citati), il modo tale da renderne il messaggio comprensibile al di là della effettiva conoscenza storica degli eventi.

Proprio l’aspetto didattico, l’essere suggerimento utile a stimolare nella coscienza e nell’interesse di chi non sa (magari per semplici motivi anagrafici) la curiosità circa alcuni dei momenti più drammatici e oscuri della storia d’Italia, rappresenta una ulteriore testimonianza della qualità di questa operazione che, attraverso cinque capitoli, sviluppa – progressivamente e senza soluzione di continuità – un ideale filo conduttore tra le esperienze di coloro che hanno subito una perdita per strage di Stato, mafia o terrorismo. Perdita che in Chi resta rappresenta un lutto ulteriormente drammatico essendo dovuto alle responsabilità di quell’istituzione (lo Stato) che, pur avendo la propria ragion d’essere nella difesa del cittadino, si è spesso trovata a essere colpevole di omissione, quando non proprio di complicità.

Il canovaccio è dunque di complessa definizione, partorito dall’enorme lavoro condotto per mesi dalla compagnia Proxima Res «incontrando e intervistando mogli, figli, nipoti, amici di persone morte nelle varie stragi». Nel restituirlo teatralmente, Rifici mette in scena con onestà intellettuale una pièce senza l’ambizione di imporre una logica ricorrente, atto che avrebbe potuto rappresentare l’ennesima violenza sui sopravvissuti e che – proprio per questo – non va confusa con il tentativo di dare comunque coerenza e comprensione alla tematica.

Lo sforzo viene restituito scenicamente sul solco narrativo che parte dall’ossessione (Ricostruzione dettagliata dell’accaduto. Il Cristian) e dal desiderio irrefrenabile di giustizia (La rabbia e la ricerca di giustizia. Muziko), attraversa il momento dell’elaborazione e di ricerca delle ragioni tramite il confronto con chi possa fornire – laica o religiosa non importa – una spiegazione (Tenere accesi il ricordo e la memoria. Il progetto – Birreria della memoria e Il confronto. Niente zucchero nel caffè) e giunge fino al paradosso del perdono (La concessione del perdono. La ginestra), per poi chiudersi con la ballata disordinata di Caterina Carpio, unica ed efficace – nella sua sibillina danza sui generis – concessione a un ipotetico finale consolatorio

Interpretazioni a tratti eccellenti, artifici tipici del teatro  (come quello della doppiezza che Tindaro Granata nel terzo testo rende – in chiave brechtiana – come simultanea presenza in scena e straniante dialogo con il pubblico) e una scenografia semplice e pertinente completano il quadro di uno spettacolo che impressiona in particolar modo se si pensa al lavoro preparatorio di cui la messa in scena è – e non potrà che restare – semplicemente la classica punta dell’iceberg.

Proprio dalla scenografia emerge uno dei giochi più interessanti dal punto di vista squisitamente teatrale, con  l’alternarsi sulla scena della presenza/assenza – reale e simbolica – di una telecamera, un espediente utilizzato da Rifici per rappresentare quel doppio volto della commistione tra pubblico e privato che caratterizzerebbe la modernità massmediatica del cordoglio: da un lato, quello inteso come luce che squarcia le tenebre dell’oblio sulla memoria dei morti, dunque positivo e rientra nel processo di rielaborazione individuale del lutto, il quale – al giorno d’oggi – necessiterebbe d’una presa in carico da parte della coscienza collettiva affinché la memoria rimanga viva; dall’altro, quello patologico e prevaricatore della dimensione prettamente individuale del dolore, che stravolgerebbe il rapporto tra pubblico e privato, annientando il secondo a vantaggio del primo.

Il merito di Chi resta non risiede, allora, nella confezione: non mancano imperfezioni nel ritmo e negli incastri, e, nonostante il risultato finale sia già soddisfacente, alcune cripticità simboliche per i non addetti,. Tantomeno, la sua forza si individua nella restituzione tecnica degli episodi, che si organizzano come brani di uno spettacolo di formazione e attraversano  un cammino grezzo e privo di circolarità e finale (scelta, quest’ultima, opportuna sia perché riflette l’onestà di una rappresentazione autentica, in-giudicabile e im-prevedibile della vita, sia perché risulta in grado di oltrepassare la pura testimonianza di un percorso di ricerca della giustizia storica, politica o morale o la semplice operazione estetica).

Proprio questa difficile collocazione, questa mancanza dovuta ad abbondanza di stimoli artistici e culturali, danno a Chi resta la capacità di sublimare nella forma teatrale la creazione di un contesto vitale, di un ambiente condiviso e caratterizzato da un comune e contemporaneo senso tanto di smarrimento, quanto di grandiosità, di una trama nella quale chiunque, messo di fronte alla propria costitutiva finitezza, potrà riconoscere che «tutta l’umanità vuole vivere, ma non vuole pagarne il prezzo e il prezzo è quello della morte» (Antonin Artaud, Lettere da Rodez), facendo così – motu proprio – un passo decisivo nella direzione di «costruire senso dalla propria tragedia».

Un breve appunto anche per lo spettacolo andato in scena al Giglio in serata, Passione, tratto dal romanzo Passio Laetitiae et Felicitatis di Giovanni Testori. Nonostante l’indubbio interesse del testo originale e del linguaggio polisemico dell’indimenticabile Testori, non ci convince del tutto il monocorde risultato tragico andato in scena il 14 giugno, continuamente inframmezzato da falsi finali e con una croce-Moloch che – volteggiando a metà palco – sovrasta con un che di minaccioso il pubblico presente in sala. Forse troppo o troppo poco.

Gli spettacoli sono andati in scena:
Teatri San Girolamo e del Giglio,
Lucca
venerdì 14 giugno, ore 18.00 e 20.30

Per la Rassegna I Teatri del Sacro
SPETTACOLO VINCITORE PROFESSIONISTI
Proxima Res presenta:
Chi resta
un progetto di Carmelo Rifici
con Caterina Carpio, Mariangela Granelli, Tindaro Granata, Emiliano Masala, Francesca Porrini
drammaturgia Roberto Cavosi, Angela Demattè, Renato Gabrielli, Carmelo Rifici
drammaturgia fisica Alessio Maria Romano
allestimento Margherita Baldoni
luci Matteo Crespi
regia Carmelo Rifici

Testi:
Ricostruzione dettagliata dell’accaduto. Il Cristian – scritto dagli attori della Proxima Res
La rabbia e la ricerca di giustizia. Muziko – di Roberto Cavosi
Tenere accesi il ricordo e la memoria. Il progetto (Birreria della memoria) – di Renato Gabrielli
Il confronto. Niente zucchero nel caffè -di Carmelo Rifici
La concessione del perdono. La ginestra – di Angela Demattè
La fine del lutto. “Ora è qui” ballata di un ricordo – Drammaturgia fisica di Alessio Maria Romano e Caterina Carpio

Tib Teatro presenta:
Passione
dal romanzo Passio Laetitiae et Felicitatis di Giovanni Testori
adattamento teatrale e regia Daniela Nicosia
con Maddalena Crippa e Giovanni Crippa
scene Gaetano Ricci
disegno luci Stefano Mazzanti e Paolo Pellicciari
costumi Silvia Bisconti