C’è qualcuno?

A La Spezia la Stagione di Fuori Luogo regala una gemma del teatro degli ultimi decenni: la ripresa di Cinema Cielo firmata da Danio Manfredini.

L’incontro con il romanzo Nostra Signora dei Fiori di Jean Genet, racconta Danio Manfredini (durante la chiacchierata di sabato mattina con gli studenti), è avvenuto moltissimi anni fa; l’idea di un film e di una sceneggiatura ispirata al romanzo è del 1990; del 2000 quella di uno spettacolo teatrale; del 2003 il debutto di Cinema Cielo. Replicato fino al 2007, ripreso nel 2011 e per finire in questi ultimi tempi, dopo quasi quindici anni dalla prima. Incredibile, commenta Patrizia Aroldi, una dei tre attori della Compagnia di Manfredini in scena, quanto lo spettacolo si dimostri resistente agli anni, e come si evolva nel tempo.

Ma facciamo un passo indietro. Il Cinema Cielo, storico cinema a luci rosse di Milano, è da ispirazione all’ambiente ricostruito in scena; l’audio che scorre è, al contrario, quello della sceneggiatura del film ispirato a Nostra Signora dei Fiori. L’incontro di questi due mondi, linguisticamente distanti, è l’opera di Manfredini, capolavoro di un maestro del teatro contemporaneo.

Va notato come appaia strano rendersi conto che, seppur immersi nel clima e nell’ambiente di un cinema a luci rosse, con i suoi frequentatori e le azioni che vi si compiono, il sentimento principale che si prova sia un’immensa tenerezza. Quando nell’audio si parla dei rintocchi di campane, di chiese, appare un bagliore di comprensione che illumina un’umanità senza casa, abbandonata, senza speranza.
“Is there anybody out there?” C’è qualcuno là fuori? Là fuori, fuori dal cinema (e soprattutto in sala, in teatro, nel mondo), qualcuno che sia in grado di ascoltare questo pianto che si manifesta in orgia?
Qualcuno che senta la solitudine e il disorientamento, che lo senta senza provarne disgusto?
In fondo, quelle che vediamo non sono che persone che cercano di arrivare in fondo alla giornata, condividendo una solitudine che, sopportata, è ormai un’abitudine. La solitudine, racconta l’angelo rosso, è un momento, basta aspettare e passa. Ed è dal suo punto di vista (dell’angelo), come in soggettiva, che appaiono gli avventori del cinema (spiega sempre Manfredini durante l’incontro). Sono figure che appaiono per poi esplodere in brandelli, come visioni che si polverizzano in coriandoli bianchi, che svaniscono e non ne resta niente (forse come i suoi tanti clienti, ai quali avrebbe dovuto dare amore…).
Tra fantasia e disintegrazione, queste presenze si muovono nel cinema; abissi deformati bisognosi di amore, di compagnia e di affetto sono sballottati dalla vita e dalle crudeltà degli altri esseri umani – mai dalla loro miseria. Per questo, risultano figure insieme pure e commuoventi, che possiedono la dolcezza di bambini che non capiscono, eppure soffrono e sono confusi: non c’è malizia o cattiva fede; c’è, sì, tanta incomprensione.
Se nel tempo hanno sviluppato l’insensibilità di chi si adatta per sopravvivere, nascondono ancora dentro di loro la ferma percezione di cosa sia autentico e non dovrebbe andare perduto. Anche per questo Cinema Cielo è, soprattutto, poesia.

Lo spettacolo può considerarsi un autentico contrappunto, musicalmente parlando, a tre voci: la prima linea è quella delle presenze fisiche, degli attori e dei manichini, il popolo del Cinema Cielo. Esso compone la partitura gestuale e fisica che, come afferma Manfredini, costituisce quella presenza che emana sensazioni, in cui in qualche modo lo spettatore si riconosce. La seconda linea è quella sonora: la sottile narrazione (ispirata al romanzo di Genet) della storia di Louis detto Divine, e dell’assassino Nostra Signora dei Fiori. Frammentaria e flebile traccia narrativa che fornisce una tensione minimale. Una terza linea è quella musicale. La scelta dei brani, talmente presenti – dotati di una tale personalità e forza – che è impossibile non tenerli in considerazione. Allusiva, non didascalica, la musica completa il complesso contrappunto, le cui voci si illuminano e risuonano a vicenda, senza mai doppiarsi (nel senso). Le tre linee di significato si mescolano, pur correndo parallele, alternandosi fra la luce e l’ombra, sempre però riverberandosi l’una con l’altra (solo in un momento le tre voci si scollano leggermente e si crea un’ansa, in un percorso che altrimenti procederebbe in perfetto equilibrio e sintonia).
Alcuni momenti restano particolarmente impressi, accomunati da un perturbante potente (quel perturbante di cui parla Freud, il ritorno di qualcosa di familiare, rimasto fino a quel momento ben nascosto e rimosso): l’ingresso di Lola, sulla musica Stan (feat. Dido), la presenza della Golden, la bellissima trans dal caschetto blu – col suo fisico statuario, le gambe snelle e muscolose sui tacchi altissimi e quel vestitino leggero. Per non parlare del finale, praticamente perfetto.
Tutto si fa poesia e la domanda sorge spontanea: Cinema Cielo riesce a cantare la disperazione più nascosta a chiunque lo veda? Non è forse un balsamo per il cuore e le sue ferite? Non ci immerge nel dolore dolce della consapevolezza?
A fine spettacolo si esce dalla sala sopraffatti dall’emozione. Per questo dolore, per l’arte, la poesia, la sapienza di cui gli interpreti hanno dato prova, nella misura e centratura di un’interpretazione che non si dimentica.

Lo spettacolo è andato in scena:
Centro Giovanile Dialma Ruggiero

via Monteverdi, 117 – La Spezia (SP)
giovedì 12 e venerdì 13 gennaio, ore 21.15

Cinema Cielo
ideazione e regia Danio Manfredini
con Patrizia Aroldi, Vincenzo Del Prete, Danio Manfredini e Giuseppe Semeraro
assistente alla regia Patrizia Aroldi
luci Maurizio Viani
realizzazione colonna sonora Marco Olivieri
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Festival Santarcangelo dei Teatri
distribuzione La Corte Ospitale
spettacolo vincitore del premio Ubu 2004 come migliore regia
copyright foto Daniele Ronchi