Le arrugginite fauci dell’alluminio

Un padre già sottoterra, una mamma con gli occhi bassi, un rampollo bello, simpatico e violento: il Balletto Civile porta all’Elfo Puccini un linguaggio nuovo e tremendamente efficace, incastonato in una storia di sterile e purissima propensione al male. Quello che succede quando il benessere è divorato dalla ruggine.

Se nel buio si intravede un uomo di spalle girato verso una parete e dal silenzio sale l’inconfondibile ronzio di un rasoio elettrico, non serve nient’altro: lo spazio è subito bagno, e la parete è ovviamente uno specchio. Se compare una valigia, la stanza diventa quella di un albergo. Se una donna allaccia le scarpe a un ragazzo, si dichiara apertamente come madre.

Così si esprime il Balletto Civile. Un linguaggio diretto anche quando è stilizzato, mai concettuale anche se sceglie di allontanarsi dal realismo e di astrarre, realmente comunicativo e davvero attuale, nelle scelte registiche, nell’uso del corpo, nella scena.

I protagonisti vivono (e muoiono) di un impero d’alluminio. Serramenti, nello specifico, infissi. Sono benestanti, molto, e sono nostri contemporanei. Un fondale di alluminio, quindi, eterno ma con la ruggine che avanza, un arredamento minimal, un tavolo, uno sgabello di pelle, un tappeto così soffice da sembrare ingannatore, un’aspirapolvere senza filo. Tanto bianco, l’immacolata visibilità; poco rosso, la violenza inoccultabile; il nero del buio e delle ombre, a sporcare irrimediabilmente il bianco. Una scena perfetta, essenziale e immancabile, in totale coerenza estetica e di senso con gli altri elementi teatrali, prima di tutto con le luci che, sapientemente governate da Stefano Mazzanti, riescono a sottolineare i cambiamenti di luogo, tempo ed emozione senza mai cadere nel didascalico o nel ripetitivo, senza mai disturbare, con una nettezza che magicamente riesce a non farsi notare.

«L’alluminio quando si attacca al cervello non va più via». Così è. E interrogarsi sulla colpa, se c’è, prima ancora di chiedersi di chi sia, diventa fuori luogo.
In questo spettacolo non si balla e non si canta, non stasera, così dichiara spavaldo e irriverente il protagonista, così, per riempire il tempo, si dovrà raccontare. E come? Con questo linguaggio nuovo, tremendamente innovativo ma totalmente radicato nel presente, nell’attimo, e quindi mai equivocabile né mai ermetico, che grazie all’indiscutibile talento di Maurizio Camilli (prima di tutto ideatore, poi perfetto interprete) scorre diretto alla comprensione, lasciando lo spettatore in uno stato di attento stupore quasi inconsapevole. Il segreto è nell’armonia. Armonia equilibrata tra i diversi registri, tra il comico e il tragico, tra il serio e il faceto, tra il colloquiale e il poetico, sia nel testo, uno scorrevolissimo monologo condito da una cadenza veneziana mai fine a se stessa, sia nella messinscena. Armonia tra il protagonista e la madre, la danzatrice Ambra Chiarello, che si muovono sul palco ognuno con la propria lingua scenica, così diverse tra loro da creare un amalgama rarissima, incontrandosi e scontrandosi in dolorosi momenti di incomunicabilità reciproca, per poi fondersi in un’unica nuova lingua che porterà al sublime prima dell’inevitabile fine. E armonia, soprattutto, tra recitato e danzato, tra voce e corpo. Camilli si muove nello spazio senza che mai un dettaglio sia lasciato al caso; nessun movimento è mai di servizio, mai sfugge un attimo di esitazione, mai una parte del corpo, anche la più piccola, smette di esprimere. Mentre racconta, mentre sfida con gli occhi la madre o uno spettatore, mentre semplicemente si sposta da una parte all’altra del palco, e ovviamente anche quando abbandona il recitato per i brevi e intensi pezzi di pura danza, da solo (come nel commovente karate-tango dell’ accappatoio) o con la madre: sempre il corpo è governato da una scelta lucidissima e precisa. Incredibilmente, l’armonia raggiunge la perfezione anche nell’insieme, che nonostante sia fatto da linguaggi e registri così diversi tra loro e così frequentemente alternati, riesce ad arrivare fino all’ultimo minuto in un’unione sensata, senza pause, senza che nulla risulti semplice intermezzo, o passaggio. La vicenda precipita rovinosamente nella tragedia sottilmente annunciata fin dal primo attimo e ribadita in ogni movimento, conciliando in un’efficace costruzione la gradualità (i capelli e il corpo del figlio che cambiando e sconvolgendosi arrivano ad essere quelli di un disperato Gesù crudele) e la crudezza di cambi netti, come i vestiti della madre, da neri e virili a rossi femminili. Tutto è comunque legato insieme da una coerenza unica, e uniformato dalla musica, una colonna sonora costante e abbondante, che a tratti cattura l’attenzione ma il più delle volte si adatta così perfettamente al resto da diventare inconscia.

Forse la trama è un po’ scarna, la storia non è nuova, ma il modo della narrazione è così interessante e adatto a ciò che narra da bastare abbondantemente. La storia di un ragazzo perso nel riflesso della propria immagine con un progetto semplice, quello di volere tutto e subito, ma parla di sé con una metafora che lo sovrappone impietosa a un piccolo di scarafaggio australiano che lui stesso chiama «la schifezza»; come dicono le note di regia, «non solo figlio di quel nord est aspro e violento, ma figlio dello stesso ferro, della ruggine, del freddo che entra nelle ossa e non se ne va più…il cuore non riceve, non riceve ma quest’uomo è bellissimo, bellissimo per niente».

Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Elfo Puccini
c.so Buenos Aires, 33 – Milano
 
Col sole in fronte
Ideazione, drammaturgia e scene Maurizio Camilli
scrittura fisica e messa in scena Michela Lucenti
con Maurizio Camilli e Ambra Chiarello
disegno luci Stefano Mazzanti
tecnicismi Francesco Traverso
produzione Balletto Civile/ Fondazione Teatro Due
in collaborazione con CSS Teatro stabile di innovazione del FVG
e con il sostegno di OperaEstate Festival Veneto
Vortice – Teatro Fondamenta Nuove / Centro Culturale Dialma Ruggiero (La Spezia)