Nostalgia autocelebrativa e autoassolutiva

Fino al 5 novembre, è andato in scena al Teatro di documenti Comunismo, addio?, esibizione perfetta, pur se contro le intenzionalità dello spettacolo stesso, dell’atteggiamento di una generazione di anime belle recluse nella loro inattualità.

Alcuni spettacoli teatrali assumono un significato testimoniale su determinate stagioni della nostra cultura e della nostra storia, magari andando contro le evidenti intenzioni dell’autore; si tratta di un corto-circuito semiotico, nel quale il testo e la messa in scena, dinanzi a un’interpretazione attenta e disincantata, si dischiudono rivelando un contenuto che entra in collisione con gli elementi immediatamente e didascalicamente mostrati al pubblico. In questa maniera, la pièce diventa un documento, ovvero la registrazione di un immaginario e di una tendenza sociale e culturale rivendicata magari con orgoglio e che, invece, si evidenzia come la reiterazione di un male destinato a sfociare nella catastrofe.

Un documento appunto, e non è casuale che proprio il Teatro di documenti, in occasione del centenario della Rivoluzione di ottobre, abbia deciso di portare in scena il testo del 2007 Comunismo, addio?, scritto e diretto da Stefania Porrino e premiato col primo premio Donne e Teatro del 2007. Un testo che, pure a pensare a dieci anni fa, appare datato, inscritto com’è nella dinamica oppositiva politico-sociale che ha caratterizzato il ventennio berlusconiano e che ha esacerbato in maniera nauseabonda il dibattito e la produzione culturale. Comunismo, addio? è una celebrazione narcisistica di una generazione che si è rispecchiata per anni nella propria presunta superiorità intellettuale e morale, intriso di una nostalgia tautologica ermetica, uno scrigno nel quale quegli stessi nostalgici sono cresciuti, invecchiati, rimanendo isolati dalla reale condizione di un mondo che è andato avanti. Una nostalgia di due livelli perciò: quella strutturale di fondo al testo, lanciata con orgoglio fastidioso verso gli anni ’70; e quella in filigrana che sfugge alla coscienza dello spettacolo stesso nei confronti di un’epoca, quella degli anni ’90 e primi anni 2000, quando gli schemi oppositivi erano ben riconoscibili, adottabili, rassicuranti. Gli anni sono passati, decenni sono passati, e tante cose sono successe a livello globale: qui invece sembra tutto immobile, la stessa immobilità dei partiti di sinistra di derivazione socialista, troppo impegnati a esaltare vecchie icone obsolete usurate dal tempo.

Nello spettacolo sfugge completamente il contesto concreto dell’ambientazione: i personaggi usano vecchi cellulari, questo è vero, e l’ambientazione ucraina evita riferimenti chiari ai fatti di cronaca più recenti. Un’opera incastrata nel narcisismo di un’intera generazione che protrae il mito di se stessa e che, come ha sempre fatto, è disposta a inserire sparuti elementi di apparente autocritica ancora una volta per dire a se stessi quanto siano bravi. Da una parte i razzisti, ignoranti e bifolchi, dall’altra l’anima bella e candida accompagnata dalle note di Guccini: uno schema che poteva funzionare 20 anni fa, e che a dircela tutta già all’epoca scricchiolava nel suo ipocrita onanismo autoassolutorio. Ma oggi il fastidio è persino maggiore, perché dai disastri politici, economici e sociali degli ultimissimi anni sembra che quelle anime belle non abbiano veramente compreso nulla: i cafoni si servono degli stereotipi reazionari degli anni ’70, ma l’anima bella nostalgica che si bea della propria lirica nostalgia può benissimo contrapporre squallidamente, ancora, Guccini a Battisti; i cafoni giocano a carte, tradiscono le mogli e queste ultime sono andate a scuola dalle orsoline, ma guai a evidenziare la cecità dell’anima bella, libera di toccare i nervi tesissimi della storia dell’Europa orientale, della Crimea, dell’Ucraina e della cultura tartara.

A oggi, sempre per andare contro le intenzionalità dell’autrice, si rimane convinti che appaiano ben più comprensibili e godibili i tre subdoli viaggiatori in crociera rispetto alla maestra che scrive lettere blaterando di marxismo, perché non sta scrivendo su quei fogli, su quei fogli ci si sta specchiando. Il merito di uno spettacolo ben coordinato, che sfrutta sapientemente anche apparati multimediali e l’intersezione di brani di chitarra (non sempre ben eseguiti), è stato quello di fare emergere chiaramente gli assi ideologici portanti; per questo si tratta di un esercizio critico interessante, perché va riconosciuto il merito di una buona recitazione, perfetta per le intenzionalità dello spettacolo, coerente, ben sincronizzata come ben sincronizzati sono la regia e gli spostamenti degli attori. Comunismo, addio? diventa un drago a due teste, perché funziona anche (e meglio) come parodia di se stesso, documento lancinante e straniante che offre un contributo in rapporto alle domande sugli eventi del presente.

Lo spettacolo è andato in scena
Teatro di documenti
via Nicola Zabaglia, 42 – 00153 Roma
Zona Testaccio
dal 26 al 29 Ottobre, dal 2 al 5 Novembre

Centro Studi ” Vera Pertossi “, Premio donne & Teatro 2007 presentano
Comunismo, addio?
di Stefania Porrino
regia Stefania Porrino
con Nunzia Greco, Evelina Nazzari, Alessandro Pala Griesche, Carla Kaamini Carretti, Giulio Farnese
chitarra Giuseppe Pestillo