La cravatta in tinta con la crisi

Al Teatro delle Muse la fabbrica delle usure è aperta anche di notte.

Si potrebbe dire di Cravattari, commedia in due atti scritta, diretta e interpretata da Geppi Di Stasio, con Wanda Pirol, Rino Santoro, Antonio De Rosa e Roberta Sanzò, che è uno spettacolo in cui si semplicemente ride. Esattamente come avviene in altre rappresentazioni in cui, come questa, viene affrontato un tema delicato.

In realtà, questa stravagante storia – che racconta di un ingenuo e goffo ladro che tenta di rubare per bisogno e (in un certo senso) per dignità a casa di due perfidi e disgustosi usurai, schiacciato nell’alternativa tra abbassarsi a chiedere la carità al ricco suocero o perdere tutto, moglie compresa, a causa di debiti, crisi economica e fallimenti professionali – certamente soddisfa sul piano umoristico ma fa soprattutto, e prima di tutto, riflettere.

Avremmo bisogno per sintetizzare al meglio l’effetto finale di questo bell’affresco italiano di una categoria dialettica precisa, quella del «riso amaro», un’espressione desueta, svuotata del proprio significato linguistico dai tempi del neorealismo. La seduzione e la sintesi esercitati da questa sorta di ossimoro, ormai destinato a un perenne assoggettamento al ricordo del cult cinematografico di cui è divenuto celeberrimo titolo (dalla omonima pellicola di Giuseppe De Santis, prodotta da Dino De Laurentis) non aiuta più, oggi, così irrimediabilmente destrutturato, a descrivere con immediatezza una fattispecie, una sensazione, uno stato dell’anima.

Si ride sì, in Cravattari – sarebbe senz’altro fuori luogo affermare apoditticamente il contrario – grazie, e soprattutto, alla grande generosità dei protagonisti e alla gradevolezza dei dialoghi in lingua napoletana; eppure, al di là dell’ilarità goduta in platea, ciò che investe lo spettatore, prima ancora di uscire dal Teatro è l’amara riflessione, il bitter rice, appunto, sulla condizione del «povero diavolo», dell’afflizione delle categorie a rischio e sul mal di vivere in un Paese così contaminato dall’ignobile fenomeno dell’usura da aver coniato, giocando sulle parole, una definizione tanto cruda quanto efficace: il cravattaio, o cravattaro, perché stringe il nodo del prestito attorno al collo della propria vittima fino a soffocarla di debiti.

Lo spunto offerto alla Compagnia Stabile del Teatro delle Muse, infatti, è la grave crisi economica che sta attraversando la nostra contemporaneità e la grande incertezza che ne deriva.

Un’occasione imperdibile, magistralmente colta da un gruppo di attori affiatati e ben calati nel soggetto, capace di trattare un tema delicato e drammatico come l’usura in chiave decisamente moderna.

Una scenografia essenziale e quasi opportunamente soffocante – costituita da una intera tappezzeria di sgargianti cravatte – irrompe sul palco all’apertura del sipario per accogliere lo spettatore in un interno notte che rimarrà lo stesso per tutta la pièce.
Tutto ruota all’interno dell’esercizio di una coppia di irreprensibili imprenditori usurai che, operando nella creazione di moda attraverso l’espediente della produzione proprio di cravatte, pensano di poter allontanare da se ingiurie e sospetti, in un amabilissimo gioco di doppi sensi ad effetto.

Una porta difettosa, metaforica “via d’uscita» dai problemi della vita, imprigionerà lo sventurato ladro in un inatteso «orto dei miracoli» e servirà da immorale grimaldello ai due melliflui «cravattari» per instaurare una squallida trattativa economica, facendo leva, con fraudolenta misericordia e farsesca generosità, sulle difficoltà economiche e sul patetico idealismo dei ladri improvvisati.
Uno scontro tra titani: cattiveria, cupidigia, ambizione arrivismo e immoralità hanno un bel daffare per tentare di conquistare la fiducia di ingenuità, candore, idealismo e sprovvedutezza. Lo spocchioso falso perbenismo degli aguzzini impatterà contro il muro di gomma di onestà e speranza dei due giovani precari, finendo quasi, e paradossalmente, con il soccombere.

Cinque attori straordinari – cui va il plauso supplementare di non lesinare passione e bravura anche a un pubblico numericamente e qualitativamente inadeguato allo scambio di emozioni – che raccontano con ammirevole naturalezza una favola d’oggi.
Sì, è vero, si ride – e molto – in Cravattari perché si coglie una volta di più la disarmante comicità che scaturisce dalle grandi tragedie umane.
Cravattari diventa così una ridicola favola triste, grottesca parafrasi della vita moderna ma, al contempo, specchio inverecondo di una piaga di sempre. Sopita dal benessere ma sempre latente sotto la soglia delle meschinità umane, l’usura riemerge a ogni buona occasione d’affari più spavalda ed impenitente di prima, forte di radici che affondano nella notte dei tempi.
Almeno fin dai tempi di S.Antonio da Padova, che già scriveva:
«Razza maledetta, sono cresciuti forti e innumerevoli sulla terra, e hanno denti di leone. L’usuraio non rispetta né il Signore, né gli uomini; ha i denti sempre in moto, intento a rapinare, maciullare e inghiottire i beni dei poveri, degli orfani e delle vedove… E guarda che mani osano fare elemosina, mani grondanti del sangue dei poveri. Vi sono usurai che esercitano la loro professione di nascosto; altri apertamente, ma non in grande stile, onde sembrare misericordiosi; altri, infine, perfidi, disperati, lo sono apertissimamente e fanno il loro mestiere alla luce del sole».

Possibile che ci sia ancora chi non se ne accorge? Al teatro delle Muse parrebbe proprio di si.

Lo spettacolo continua:
Teatro Le Muse

via Forlì, 43 – Roma
fino a martedi 7 febbraio
orari: martedi, giovedi, venerdi ore 21.00 – sabato ore 17.00 e 21.00 – domenica ore 18.00

Cravattari
di Geppi Di Stasio
regia di Geppi Di Stasio
con Wanda Pirol, Rino Santoro, Antonio De Rosa e Roberta Sanzò