Ritratti d’Autore (di Monica Canu e Daniele Rizzo)

Nell’attuale situazione di inaridimento delle coscienze e di sterilizzazione delle emozioni, lo spettacolo dal vivo deve rappresentare una priorità civile e politica. Con questo spirito e con la consapevolezza che, una volta stabiliti i necessari e dovuti protocolli, si debba ripartire non tanto al più presto, ma in un’ottica di radicale ripensamento, la direzione artistica dei Motus presenta il secondo movimento del Santarcangelo Festival, Futuro fantastico: festival mutaforme di meduse, cyborg e specie compagne che si terrà in terra di Romagna dall’8 al 18 luglio e il cui programma è visitabile direttamente sul sito ufficiale.

Con l’edizione 2021 si conclude la vostra direzione artistica e, pur non essendo ancora tempo di bilanci, è forse possibile tracciare una direzione. Sulla base di quanto accaduto nel 2020 in termini di progetto artistico e riscontro del pubblico e di quello che, tra I e II movimento, è accaduto nel Mondo, quali sono le vostre riflessioni sul trascorso festival e quali sono le vostre aspettative su quello che sarà?
Daniela Nicolò/Enrico Casagrande: «Siamo decisamente molto felici della scorsa edizione, è stata un’epifania serena e intensa, attraversata da parole e immagini che si sono sedimentate sia nelle retine di un pubblico paziente e amico, sia in quelle delle artiste e degli artisti ospiti che non hanno cercato, come ha scritto Roberto Ciccarelli «di fare guarire lo spettatore dalle illusioni che lo rendono un subalterno. Al contrario sono stati questi artisti a mettersi in gioco al fine di aprire un campo percettivo nel quale invitare gli spettatori a sperimentare la traduzione in pensiero e in azione di ciò che si vive senza conoscere, di ciò che si conosce senza sapere, di ciò che si sa ma non si agisce».
Abbiamo scritto tanto su questa edizione prima del suo realizzarsi, ne abbiamo per lungo tempo discusso e ipotizzato le problematicità e i potenziali, muovendoci sempre in un contesto di incertezza e trepidante attesa, cercando di rendere il festival più accogliente possibile, nei suoi spazi e nelle modalità con cui il numeroso personale volontario (che non finiremo mai di ringraziare) avrebbe accolto il pubblico che con impazienza attendevamo di rivedere a Santarcangelo.
A pochi giorni dall’apertura eravamo stanchi ma stranamente rilassati, con l’intima certezza che comunque tutto sarebbe andato per il meglio, forse perché nel lavoro di costruzione del programma e di ridefinizione degli spazi, tutto lo staff ha collaborato con passione e dedizione a dir poco commoventi. Nonostante le enormi complessità legate soprattutto alla regolamentazione nell’accesso ai luoghi secondo le normative anti-Covid, abbiamo tentato di reinterpretare il decreto per un ottimale utilizzo degli spazi pubblici. È sorprendente dirlo, ma in effetti proprio la mutata situazione pandemica ci ha permesso di rendere Santarcangelo un luogo da riscoprire anche per chi lo frequenta abitualmente. Gli interventi obbligatori di ri/delimitazione degli spazi hanno infatti creato una nuova mappatura, in cui gli spettatori si muovevano con dolcezza e stupore.
Per questo immenso lavoro ringraziamo tutta l’equipe tecnica che in poco più di un mese ha costruito nuove sedute, palcoscenici, originali sistemi di segnalazione. Anche l’area di produzione e logistica ha dovuto reimpostare tutte le modalità di gestione di spazi e pubblico, per affiancare gli artisti nella eclettica variabilità dei formati delle opere situate fra ambienti enormi e piccoli palcoscenici, negozi o parcheggi, in una selva intricata di performance, installazioni, concerti, e proiezioni cinematografiche. La natura ibrida del festival, in soli cinque giorni di programmazione, ha ancor più amplificato il potenziale “fantastico” della contaminazione fra le forme artistiche e fra i corpi!
C’è stata una magnifica confluenza di spettatori (e addetti ai lavori) da tutta Italia, e in parte anche dall’estero: oltre 5000 persone che si sono fluidamente mescolate alla popolazione locale, creando una fauna variopinta di presenze.
Abbiamo cercato, con sforzi sostanziosi, di rendere questa celebrazione il più inclusiva possibile, facendo emergere la grande specificità che il teatro come arte, ha tatuata sul cuore, ovvero la coralità, come sottolinea Se respira nel giardino come nel bosco de El conde de Torrefiel che, con un semplice meccanismo, riduce al minimo l’essenza del teatro: non c’è spettacolo se non c’è spettatore, il rito non si può consumare da soli, ha sempre bisogno dell’altro.
Ciò che si è manifestato in modo accecante in questi cinque giorni è la necessità del NOI, da sostituirsi all’IO, alla solitudine dei corpi che questo tremendo ultimo periodo ci ha imposto: le persone avevano desiderio di rincontrarsi guardando un’opera o un film nella pubblica piazza. Tutto questo è la conferma che una comunità di persone «anticonformiste, pretenziose di vivere senza regole» e che «raccolgono soldi per sostenere i clandestini» ­– come siamo stati definiti da un articolo leghista – esiste…
Questo entusiasmo è stato poi frenato dalla seconda ondata invernale, che ci ha costretto a spostare online Winter is coming (diventato Winter is locking down), il festival dedicato alle compagnie emergenti, parte del lungo cinquantennale esteso anche al 2021. Ora ci troviamo all’ultimo movimento di questi faticosissimi tempi che guardiamo con trepidazione e immancabile entusiasmo. Il programma è completato, ci sono tante linee di connessione con l’edizione in stato di emergenza del luglio scorso, ma si apriranno anche tanti nuovi panorami, relazioni interculturali che l’anno scorso erano impossibili, e spericolati progetti site specific. C’è molto lavoro ancora da fare sia sul piano sociale che politico ma un sasso nel lago lo abbiamo lanciato e ora ci lasciamo incantare dalla propagazione delle onde concentriche che ha prodotto e che ci auguriamo non smettano mai di allargarsi».

Il programma è ampio, variegato e nella sua complessità connesso da un filo tanto sottile, quanto potente e suggestivo, vale a dire la possibilità/necessità della trasformazione. In che modo se ne percepirà la presenza nelle proposte artistiche e nell’organizzazione dei luoghi del festival?
DN/EC: «Siamo partiti innanzitutto da una considerazione basilare: le distanze fra chi come noi ha vissuto il confinamento nel calore delle propria casa e chi una casa non ce l’ha e si trova nel dramma dell’esclusione, dai paesi ricchi che non accolgono chi si vuole spostare per un qualsiasi motivo (sempre legittimo), o dai posti di lavoro sempre più ridotti, specie per le nuove generazioni. La lista è lunga! Nell’oscillare fra disperazione e speranza, come scritto nell’introduzione a questa edizione del Festival, abbiamo intessuto questa edizione con la speranza scaramantica che l’estate sia un lento ritorno alla vita comunitaria e non più una dimensione bidimensionale come il surrogato che viviamo continuamente affacciandoci agli schermi-finestre, ma nulla dovrà mai tornare come era! Se c’è una cosa che ci ha insegnato il virus è l’impatto con la nostra estrema vulnerabilità: abbiamo imparato quanto il pianeta sia interconnesso ed esposto e quanto sia necessario smettere di porre l’uomo (bianco-maschio-occidentale) al centro o in cima alla piramide di tutti gli esseri ed elementi naturali che popolano il pianeta. Gli spettacoli, molti dei quali di artiste che accolgono altre voci non eurocentriche, sono un input a implementare la nostra disponibilità al dialogo e all’ascolto, che discende sempre dallo smantellamento di ogni attitudine patriarcale. Il mondo è un trickster «con cui dobbiamo imparare a conversare», ha scritto Donna Haraway.
Per questo, forse, piuttosto che continuare a dire che siamo tutti sulla stessa barca, faremmo bene ad ascoltare Bruno Latour che dice invece che siamo «tutti nello stesso calderone di streghe […] in questa zona metamorfica [dove] risiedono tutti i trickster, tutti i mutaforma».
Abbiamo definito questa edizione mutaforma, dall’inglese shapeshifter, caratteristica che ha una lunghissima storia nella letteratura, nella mitologia e nel folklore, e che incarna la possibilità, per umani o altre creature, di trasformarsi in altre specie.
Non si conoscono bene le origini dei mutaforma, forse un tempo erano semplici individui in simbiosi con la natura. Secondo alcune leggende i mutaforma (chiamati anche skinwalkers) sono discendenti di semidei o dei della Grecia antica come ad esempio Zeus, che riesce a trasformarsi in toro o cigno. Altri affermano di esser discendenti degli antichi Norreni: ad esempio Odino ha la capacità di cambiare sembianze. Nelle leggende dei nativi americani, gli sciamani sono esseri magici che hanno il dono di poter assumere le sembianze di animali. Alastyn è un cavallo mutaforma delle leggende gaeliche. Per alcuni sono abomini della natura e per questo sono visti come portatori di sfortuna, streghe o mostri: i mutaforma possono dunque sentirsi come dei reietti della società, oppure esseri con un dono magnifico in base al loro vissuto e al loro carattere. Non hanno il senso di appartenenza a un branco o a una specifica razza (in quanto possono prendere la forma di varie tipologie) pertanto non sono organizzati secondo gerarchie o classi, ma sono liberi e indipendenti e possono anche transitare fluidamente tra i generi, che fatichiamo così tanto a nominare. Di queste teorie e immaginari saranno intrisi tanti appuntamenti del festival, gli incontri di approfondimento, la programmazione musicale e cinematografica ma anche i luoghi stessi, a cominciare dal Parco dei Capuccini che quest’anno oltre a ospitare gli spettacoli all’aperto, inaugurerà anche un campeggio/ecosostenibile con il progetto How to be together».

Qual è il ruolo che, a 51 anni dalla nascita, un festival come Santarcangelo può svolgere dal punto di vista della ricerca artistico-performativa e della riflessione/azione etico-politica?
DN/EC: «La relazione con la piazza, gli spazi pubblici e la città, la connessione tra esperimenti artistici radicali e l’ampio pubblico, che include generazioni e provenienze diverse creando comunità ibride temporanee e inattese, e infine la compresenza di voci nazionali e internazionali, sono aspetto fondante dell’articolato DNA del Festival di Santarcangelo. Nel corso della sua storia, il Festival ha ospitato personalità artistiche di rilievo internazionale e intrecciato la nascita di movimenti d’avanguardia, non ultimo il recente slittamento verso progettualità che prevedono la co-creazione e coinvolgimento di cittadini e territori verso una dimensione aperta e partecipata. Nelle edizioni precedenti il Festival ha confermato e accresciuto la sua popolarità e capacità di attrarre pubblico numeroso e diversificato. Il fatto di articolarsi in modo diffuso su più spazi, incluso lo spazio pubblico, le politiche di accessibilità e la scelta di una programmazione artistica multidisciplinare, innovativa e di qualità ma sempre in dialogo con il contesto, attraverso processi site specific o progetti esperienziali, rendono il Santarcangelo Festival un appuntamento unico e atteso tanto dalla comunità locale quanto dalla comunità artistica nazionale e internazionale.
In termini di pubblico infatti, nel corso delle passate edizioni, si sono registrati circa 12.000 spettatori a eventi gratuiti con 11.204 biglietti venduti e 723 ingressi di operatori e professionisti del settore presenti durante tutto l’arco del festival. Relativamente a questo segmento, nel 2019 si sono registrati 167 operatori di cui 60 rappresentanti di istituzioni italiane e 63 di realtà straniere. Questi numeri, crescenti di anno in anno, dimostrano quanto il Festival sia stato e continui ad essere, polmone costruttivo e rigenerante di un pensiero critico libero, che guarda al futuro con visioni potenti.
Il 2021, improntato già nelle linee tematiche alla creazione di intrecci e relazioni impossibili, sarà un’edizione eccezionale, tutta rivolta  a includere e favorire la massima partecipazione di tutte le fasce di pubblico, per rispondere alla crisi pandemica con nuove pratiche di vicinanza, rigenerare il tessuto comunitario così tragicamente parcellizzato dalla pandemia e rinsaldare il senso di appartenenza al Festival, che si comporrà di una costellazione di artisti capaci di attraversamenti tra forme e codici. Mentre festeggia il traguardo del cinquantennale, il Festival ridefinisce la propria identità, matura senza invecchiare, si consolida senza stanziarsi e allena il proprio muscolo immaginativo a slittare, spostarsi, mutare e assorbire le turbolenze del presente per farle proprie e continuare a essere scintillante e accogliente come è sempre stato. Attraverso le pratiche artistiche, leva di trasformazione dei territori e contesti, genera nuovi processi di attivazione territoriale e comunitaria, rispondendo a obiettivi strategici quali: l’inclusione e la diversificazione del pubblico; il rinnovamento delle pratiche di mediazione; il supporto a nuovi linguaggi artistici tesi a esplorare spazi non convenzionali, ridefinendo pratiche e formati ecosostenibili; la formazione di nuove voci critiche e artistiche; la creazione di occasioni di confronto e crescita, per un tessuto sociale aperto, tollerante e inclusivo, con ricadute positive a livello di benessere e visibilità del territorio, dal punto di vista sia culturale che turistico. La rigenerazione a base culturale è stata recentemente introdotta come volano di rilancio del Paese. Si tratta di processi strutturali che le organizzazioni del settore hanno il compito di incubare e che possono emergere ed esplodere in momenti puntuali come il Festival, che non è un semplice evento ma un’emersione circostanziata, condensata e per questo capace di lasciare, con pirotecnico stupore, un segno di lungo termine sui territori e tra le comunità interessate. Viviamo dunque la crisi come possibile punto di svolta e ripensamento delle forme artistiche e del ruolo profondo delle organizzazioni culturali in questa svolta di paradigma».

Per gli spettatori che potrebbero prenotare e vedere solo 3 spettacoli, quali consigliereste?
DN/EC: Per correttezza non mi sento di suggerire un artista al posto di un altro, ma suggerirei di non perdersi almeno uno dei grandi progetti partecipativi e site specific come Grand Bois di Luigi de Angelis e Giorgina P. sui tetti e terrazzi del centro storico, o il grande ballo di gruppo Be Waters my friends di Mara Oscar Cassiani allo stadio di Santarcangelo, ma anche il rituale d’inaugurazione BOGA con Enrico Malatesta e Cristina Krystal Rizzo. Poi ancora gli spettacoli, che saranno nell’area denominata l’anno scorso NELLOSPAZIO, sono tutti imperdibili, con molte prime italiane e internazionali di artiste mai state prima in Italia. Consigliamo assolutamente di vedere anche gli spettacoli delle compagnie emergenti nella sezione Begin Anhywhere, che saranno suddivisi fra Lavatoio, Parco della scuola Pascucci e Supercinema, molti dei quali saranno visibili nel tardo pomeriggio. Piazza Ganganelli sarà spazio di laboratori per bambini e adolescenti dalle ore 18 in poi, e alla sera per anziani (e non solo) una pista accoglierà le migliori scuole di ballo liscio della zona, come omaggio a Raul Casadei. Da non perdere assolutamente almeno un appuntamento con il CINEMA DU DESERT, il cinema nomade a energia fotovoltaica, che proietterà in luoghi suggestivi dell’entroterra. In breve, dal momento che l’offerta è ampia, consiglierei di diversificare, a cominciare dagli incontri di approfondimento pomeridiani».

Concludiamo con una domanda di carattere più generale. Se, da un lato, il “mondo dell’arte e dello spettacolo” lamenta con un’unica voce la scarsa, se non inesistente, considerazione da parte delle Istituzioni, dall’altro non sembra che ci si siano state significative manifestazioni di solidarietà da parte della società nei confronti di un comparto dissanguato da mesi di completa inattività lavorativa. Ritenete che artisti – e teatranti nello specifico – debbano in qualche modo sentirsi correi di questa situazione di marginalità, che sia l’esito “naturale” delle dissennate politiche culturali degli ultimi decenni o ci siano altre ragioni strutturali al settore delle arti nel nostro Paese?
DN/EC: «Sicuramente ci sono delle ragioni strutturali ma anche gli effetti di alcune politiche culturali dissennate degli ultimi anni hanno contribuito alle difficoltà diffuse. Senza dubbio ha influito anche la forte parcellizzazione del settore, che spinge ogni soggetto a difendere il proprio orticello senza creare alleanze. La pandemia, da un lato, ha accentuato questo aspetto di isolamento e lotta di tutti contro tutti, ma ha anche acceso invece nuove potenzialità e movimenti di rivendicazione, basti guardare alla recente occupazione del Globe Theatre a Roma, che ha coalizzato tante forze diverse sulla rivendicazione di un reddito universale per tutti e tutte: una lotta che sosteniamo.
Noi abbiamo un riconoscimento ministeriale che almeno permette di usufruire della cassa integrazione per il personale fisso, ma per tutte le lavoratrici e i lavoratori a contratto è come muoversi in una giungla di guerra fra poveri per la sopravvivenza, fra chi accetta il contratto al prezzo più basso. Lo sfruttamento dilaga anche in questo settore e va reso pubblico e denunciato. Ci sentiamo responsabili ora che lavoriamo in un’istituzione e in quanto gestori di una compagnia nelle griglie del sistema ministeriale, un sistema vecchio e improntato solo sui numeri e non sulla straordinaria capacità innovativa che le dinamiche artistiche e di rilancio del fantastico possono innescare. Quello che vorremmo fare, oltre a protestare per la situazione delle arti dal vivo, per la mancanza di reddito e di ammortizzatori sociali, è cominciare a mettere a fuoco nuovi possibili sistemi e modelli di macchina dello spettacolo, per emanciparci dalla logica dell’emergenza.
Ora oltre a denunciare e lamentarsi della debolezza in cui siamo mantenuti, si tratta di fare, di ricominciare dal basso, dalle relazioni lavorative interpersonali che si instaurano ogni giorno, si tratta di riscrivere le istituzioni, cominciando proprio da un prontuario di tutele e possibilità di allargamento del campo artistico a pratiche sostenibili e di cura delle categorie più deboli ed esposte, delle minoranze, della parità di genere.
È possibile trasformare i teatri, i festival e le compagnie stesse in apparati flessibili capaci di accogliere al loro interno e direzionare fondi pubblici ad attività sociali di supporto e implementazione dell’inclusione? Questa è la grande domanda su cui si sta dicutendo anche in molte piattaforme europee, perché se questa agilità non arriva dall’alto, siamo noi che dobbiamo iniziare a innescarla nelle nostre stesse pratiche quotidiane che devono andare oltre la conservazione del costituito, oltre la sopravvivenza e la difesa del proprio orticello: questa è la dinamica in cui ci vuole rinchiudere l’apparato statale, ma noi dobbiamo essere più veloci e capaci di cogliere questo momento di grande debolezza e fragilità, che anche la pandemia ha amplificato, ma che è qualcosa che ci trasciniamo da decenni. A partire proprio dal superamento del sentimento di impotenza che ci è stato instillato con il contagocce, come scrive Bifo «Come spieghiamo che la solidarietà fra lavoratori si sia per gran parte sgretolata, e che i lavoratori del nord del mondo considerino le migrazioni come invasione del loro territorio? Beh, certo possiamo spiegarlo con la precarizzazione del lavoro, con la concorrenza che la globalizzazione ha scatenato all’interno della forza lavoro potenziale. Ma c’è una questione propriamente soggettiva, quasi psicoanalitica, che sta al centro di questa trasformazione. È la questione dell’umiliazione. Mi pare che questa parola non sia mai entrata a far parte del lessico politico, e neppure tanto del lessico psicoanalitico. Invece è centrale, e va indagata. L’umiliazione nasce dall’impotenza, dal sentimento di non poter essere quel che vorresti essere, di non poter fare quel che vorresti fare».
È da qui che dobbiamo ripartire, nell’acquisire fiducia nelle nostre stesse forze!»