Ritratti d’autore

Compagnia toscana under 35 nota per essere portatrice di un “linguaggio teatrale innovativo”, che affonda nel “magma dell’inconscio collettivo intercettando di tutto, dai videogiochi ad Artaud”. Quando si cimenta nella formazione dei liceali si batte per “aprire loro un mondo”. Il nome? Tutto un programma: Teatro Sotterraneo. I suoi membri? Daniele Villa, Sara Bonaventura e Claudio Cirri.

Come avete scelto il nome Teatro Sotterraneo e perché?
Teatro Sotterraneo: «Il nome deriva dal luogo in cui abbiamo provato per anni prima di diventare Compagnia, ovvero un garage seminterrato. Lì ci riunivamo quando ancora eravamo solo un gruppo di amici, che si erano conosciuti partecipando a vari corsi di recitazione, e che sperimentavano il teatro per hobby. Il primo progetto, in quel periodo, fu il Teatro d’Appartamento».

Carmelo Bene, nel mitico intervento al Maurizio Costanzo Show disse: “Non si può fare pittura con la pittura, letteratura con la letteratura, musica con la musica, in definitiva non si può vivere con la vita”. Voi con cosa fate teatro?
T. S.: «Con tutto. Il palco, per noi, è metaforicamente un uovo dal quale esce nuova vita; un tritacarne in cui, a livello di riferimenti, si può riversare di tutto. Dal fumetto al riferimento pop, dai romanzi ai cartoni animati, dai trattati di filosofia a Carmelo Bene. L’unico modo per mantenere vitale il teatro è che, di fronte allo spettatore, in un’esperienza meno mediata rispetto a quella quotidiana (come ad esempio, il cinema o la televisione), possa accadere letteralmente di tutto. Proprio su questo punto ci battiamo quando teniamo i laboratori nei licei, ovvero smontare l’idea standard che, a teatro, ci debba essere per forza un grande attore che fa un monologo».

Durante i laboratori teatrali con i ragazzi delle scuole seguite un metodo o un non-metodo?
T. S.: «Nella formazione abbiamo adottato un “quasi-metodo”. Uno schema composto di esercizi di riscaldamento per trasmettere l’ABC del semplice stare in scena, per poi lasciare spazio all’improvvisazione. Tutto questo confluisce poi in una forma compiuta di spettacolo, cesellato con cura registica. Noi passiamo loro gli strumenti di lavoro, ma prendiamo anche tanto, quasi fossimo a un corso d’aggiornamento. La formazione è il nostro elisir di lunga vita. Canzoni, film, neologismi, tutto quello che bolle in pentola tra i 13 e i 20 anni, abbiamo modo di intercettarlo in classe. Scopo dei laboratori è ampliare l’educazione alla visione dei partecipanti e aprire loro un mondo. Ci preme lavorare sugli interessi e i bisogni personali, dato che nell’esperienza teatrale si può inserire tutto ciò che si desidera».

Io, come voi, appartengo alla generazione degli anni 80. Cosa pensate quando vi definiscono Compagnia “giovane” e, in generale, dell’abuso di questo aggettivo?
T. S.: «In Italia quella generazionale è una gabbia, per un discorso di gerontocrazia ma anche di autodifesa. Rimanere eternamente giovane dispensa da prove di maturità, responsabilità, risposte di risultato. E dispensa chi ha più esperienza e potere dal lasciarci spazio, con la scusa che siamo “ancora giovani”. Io faccio spesso l’esempio di Einstein, che ha teorizzato la teoria della relatività a ventisei anni. A trenta, l’energia cerebrale e biologica inizia a decadere e, in questo Paese, stiamo bruciando e disperdendo le energie più vivaci. Tuttavia, essere una Compagnia giovane da certi punti di vista è un bene, perché il Ministero ci ha riconosciuti come under 35 portatori di un linguaggio teatrale innovativo. Il rischio è rimanerne intrappolati. Se fra tre anni ci rivediamo e siamo ancora una giovane Compagnia, dovremo ammettere che qualcosa non torna».

Qual è, secondo voi, lo scopo del teatro, se ne ha uno?
T. S.: «Il teatro, come qualsiasi tipo di nutrimento spirituale non religioso, ha il compito concreto di fortificare la nostra capacità di cittadinanza. La democrazia o è cognitiva o non lo è. Per essere un cittadino consapevole, ed esprimere il voto consapevolmente, devo avere uno spirito vasto, e il teatro amplia lo spirito. Il teatro è anche un atto ineluttabile e istintivo: esiste da prima che fossimo abbastanza coscienti da sviluppare un linguaggio. Precede l’umanità stessa. L’uomo di Neanderthal, non a caso, partecipava a rituali funebri. Creava, cioè, delle rappresentazioni teatrali per venire a patti con la morte».

Quali sono i vostri punti di riferimento teatrali, se ne avete?
T. S.: «Non abbiamo maestri, teorie o punti di riferimento stabili. Crediamo molto nell’inconscio e nell’immaginario collettivo, in un magma che ci appartiene e dal quale traiamo ispirazione. Quindi il nostro teatro, come visione culturale, abbraccia tutto quello che si sedimenta in questo inconscio, dal videogame a Il corpo senza ossa di Artaud. Non è un disconoscere i maestri ma un assumerli, mutarli e renderli commestibili nell’oggi, nel presente, nel nostro tempo.

Quale genere musicale potrebbe rappresentare il vostro modo di fare teatro?
T. S.: «Diremmo l’hip-hop, perché è un mix di ritmo e campionamento, e anche perché uno dei suoi slogan è “something from nothing”, che è una delle nostre linee guida. Ma quello più azzeccato forse è l’avant-pop, un genere indie-rock statunitense, diventato poi anche un genere letterario. L’idea è pescare dalla cultura popolare e trovare soluzioni sperimentali che permettano di viaggiare su una linea orizzontale e trasversale, che nutra chi è super colto e ha strumenti, così come chi risponde in modo meno cerebrale e vuole semplicemente divertirsi. Dal brodo letterario dell’avant-pop è emerso infatti David Foster Wallace, autore che contemporaneamente diverte e fa pensare». Come Teatro Sotterraneo (n.d.g.)