Ritratti d’autore

Incontriamo Dario Marconcini e Giovanna Daddi nella loro casa che, come lo spettacolo che stanno portando in tournée, Minimacbeth, è una summa della loro vita e carriera artistica. Tra le marionette per il teatro delle ombre indonesiano e quelle per la Turandot di Busoni, tra i ricordi di Bali e le esperienze oltre la porta del non ritorno, ascoltare Marconcini e Daddi è percorrere un viaggio nel tempo e nello spazio, insieme conturbante e iniziatico.

Ma i due artisti non hanno perso la loro autoironia e quando Marconcini parla del lungo sodalizio con il regista Jean-Marie Straub, la battuta gli viene spontanea: «Per Straub, Buti era come il Grand Canyon per John Ford».

Così come il ricordo del primo incontro con l’Odin Teatret è quanto mai esilarante: «Scrivemmo a Eugenio Barba presentandoci come un gruppo di operai, chiedendogli di essere invitati nel suo teatro. E con questo trucco, siccome Barba voleva passare per aperto alle masse (come si diceva allora), ci invitò a raggiungerlo. Così, il gruppo di Pontedera partì: senza una lira, con un pullmino Seicento e una Mercedes prestata da un amico». Ma questa intervista è anche il mezzo per scoprire il metodo di lavoro elaborato da Dario Marconcini che, partendo da Brecht e passando per Straub, approda alla cifra visionaria di Artaud. Un procedere per immagini che è autentica scuola di teatro.

Partiamo dalle note dolenti. Il Teatro di Buti riaprirà quest’anno?
Dario Marconcini
: «Il teatro di Buti è sempre sopravvissuto con i contributi del Comune, della Provincia e della Regione, non avendo nessun finanziamento ministeriale. La Provincia è scomparsa. Il Comune da anni non aumenta il proprio contributo e lo stesso è dato con ritardo, per ovvie ragioni. Mentre la Regione Toscana non ha ancora stabilito se corrispondiamo ai criteri della nuova Legge teatrale, che prevede un certo numero di contributi versati per poter accedere ai finanziamenti. Cifre contributive che non abbiamo raggiunto avendo sempre preferito pagare le Compagnie. In altre parole, il personale del teatro lavora a costi molto bassi per far sì che la maggior parte dei contributi vada agli artisti. Abbiamo portato avanti la politica di versare l’80% delle entrate alle Compagnie, e di riservare solo il 20% per la struttura».

Parliamo dell’ultimo lavoro che avete presentato in primavera, e che è una summa della vostra carriera, Minimacbeth. Dal testo alla messinscena.
D.M
.: «È un sunto della nostra vita, nel quale abbiamo riversato tutte le esperienze di teatro fatte. Da quello di strada a quello dei cunti. Nella prima parte, abbiamo inserito anche elementi del teatro popolare del Maggio, ma solo per quanto riguarda l’espressività a livello fisico. In altre parole, il gesto del braccio che rimanda a quello del racconto cantato. Si può anche notare la presenza dell’improvvisazione – seppure sui generis. Ogni scena, del resto, racconta una storia precisa, anche nella scelta degli oggetti. Le lampade, per esempio, appartengono agli Ashanti (monarchia tuttora riconosciuta all’interno della Repubblica del Ghana, il cui impero si estese in epoca pre-coloniale fino al Togo e alla Costa d’Avorio, n.d.g.). Ricordo che le recuperammo durante un viaggio che ci condusse ai confini tra Togo e Benin, dove si trova la porta del non ritorno (oltrepassata la quale, gli uomini perdevano l’iniziazione vudù ed erano venduti come schiavi ai mercanti bianchi, n.d.g.). In quel periodo eravamo interessati al teatro della magia, e decidemmo di incontrare persone toccate dalla stessa, che si potevano riconoscere perché portavano sul volto una serie di cicatrici – segni che indicavano la possibilità di affrontare con loro quegli argomenti. Andavamo in cerca di forme primigenie e vedemmo cose che, per brevità, definirò strane, forse anche pericolose. Da queste esperienze nacque l’idea di come mettere in scena, nel Minimacbeth, l’uccisione del re, con l’uomo che cammina sul tavolo muovendo i piedi secondo una geometria precisa e con l’uso delle lampade, prima, ad annunciare il regicidio. Scelte stilistiche che derivano da forme che, per semplicità, potremmo definire di sciamanesimo – alle quali assistemmo durante il viaggio. Ma potrei anche parlare dell’uso delle foglie, che hanno una loro fisicità e che mi sono state suggerite da Giovanna».

Giovanna Daddi: «Le foglie mi hanno sempre affascinata». La voce della Daddi è inconfondibile: nel suo salotto, ha la stessa potenza e sinuosità del palcoscenico: «Sono quelle del viale, dove sorge la nostra casa. Mi ricordo che molti anni fa feci un’improvvisazione con Grotowski dove c’erano le foglie, simboli di questa vita che poi muore, pur conservando un suono ben preciso. E quando lessi il Minimacbeth, mi venne l’idea di questa regina che, mentre il marito è in guerra, resta a casa, nel suo castello, nei suoi giardini, tra la melma, nella pioggia, e cammina calpestando queste foglie. Le foglie, del resto, rimandano alle steppe, all’umido, alla notte – e alla morte».

Cos’altro ha trasfuso in questo lavoro?
G.D.
: «Vi ho apportato la mia esperienza di teatro fatto con le marionette. In effetti, io ho iniziato con i Bread and Puppet (Compagnia statunitense attiva fin dai primi anni Sessanta, n.d.g.). Poi ho seguito dei laboratori con i maestri cartapestai di Viareggio, con i Madonnari di Lecce, per imparare a costruirle. E solo in un secondo momento ho appreso come muoverle e come utilizzarle in scena. Col tempo mi sono appassionata al mondo delle marionette e ho partecipato a spettacoli molto belli, l’ultimo dei quali – interrotto per una serie di circostanze negative – fu la Turandot di Busoni. Ricordo con piacere che Luciano Berio ne rimase affascinato anche perché le scenografie erano montate su quattro carrelli di tre metri per metri, che permettevano la presenza di ben trecento marionette in scena. Mentre per le luci, Juri Saleri aveva costruito delle americane su ogni carrello che reggevano una miriade di faretti, fatti con i tubi delle palle da ping pong. Partendo da materiali di riciclo, era riuscito a ricreare una sinfonia luminosa che riverberava su queste trecento marionette, tutte in movimento. L’effetto finale fu meraviglioso. E io ho voluto portare questa mia esperienza nel Minimacbeth. Perciò ho attrezzato il tavolo con una serie di ganci, fori, eccetera, così da poter estrarre gli oggetti che facevano parte della mia tradizione teatrale».

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Come definireste la vostra cifra stilistica? È inconfondibile l’influsso brechtiano. Ma quali altri metodi vi hanno ispirato?
G.D.
: «Per me, il grande maestro è stato Jean-Marie Straub. Grazie a lui ho capito come si combinassero ghiaccio e fuoco. Lo straniamento brechtiano, il distacco intellettuale unito alla passione. Non è stato facile liberarsi dai retaggi passati, e imparare l’importanza della singola parola – non della frase. Ogni parola ha un suo peso specifico. E in base al contenuto che devo esprimere, do maggiore peso a una o all’altra».

D.M.: «Straub ci ha insegnato a scomporre ogni frase. Con lui non si è mai parlato di personaggio. Prima di Jean-Marie, credo sia stato molto importante il rapporto con il teatro popolare. Questo modo di essere sia dentro il – che fuori dal personaggio. L’attore, con la sua passione, racconta una storia. Ma non diventa ciò che racconta. Al contrario, è lo spettatore che, attraverso il racconto, ricostruisce il personaggio. Secondo me, anche Stanislavskij è stato travisato, in quanto lo si interpreta attraverso Strasberg (Lee Strasberg, direttore dell’Actor’s Studio, n.d.g.). Del resto, l’attore che si identifica totalmente, assume su di sé anche i tic o i vizi del personaggio. Ma il teatro è una sottile linea rossa che dobbiamo percorrere, dall’inizio alla fine. In parole povere, se l’interprete di Riccardo III già dalla prima scena è zoppo, gobbo, con indosso i segni del male, non subirà alcuna evoluzione nel prosieguo dell’azione. Il mio metodo di lavoro è totalmente diverso. Io assegno allo spettacolo una serie di titoli, assolutamente diversi dal contenuto testuale. Faccio un esempio pratico, riallacciandomi al Minimacbeth. La prima parte è intitolata Gengis Khan e la steppa, Gengis Khan attraversa le montagne, Gengis Khan incontra la pioggia e il vento. Di conseguenza, quando sono Macbeth che racconta il vaticinio nel bosco, divento un altro: sono Temugin. Ma dopo poco, mi ritrovo, magari, in un film di Ozu (Yasujirō Ozu è stato un regista e sceneggiatore giapponese, nd.g.). L’attore, in questo modo, nel breve spazio di una pagina, ha la possibilità di interpretare non uno ma dieci ruoli diversi, e quanto creerà sul palcoscenico sarà oltremodo ricco, evitando i cliché. Ma vado oltre. L’attore sarà non solamente una serie di persone ma anche pezzi di film, quadri, ricordi. Sarà un autentico visionario. Ecco perché i miei maestri sono Brecht e Artaud. Il primo, in quanto offre l’opportunità di raccontare con passione una storia, ed esserne, nel contempo, distante. E Artaud, in quanto regala la visione di questa storia, con la dose di follia che ogni visione comporta».

Giovanna Daddi, interprete. Quali affinità tra Straub e Marconcini registi? Altri maestri nel suo lavoro?
G.D.
: «Come Dario, anche Straub diceva sempre che l’attore deve vedere quanto dice. Noi procediamo per immagini. Non conta aver capito il personaggio, dobbiamo vedere la scena che abbiamo creato e che non è detto, nel caso del Minimacbeth, sia un castello scozzese. Potrebbe essere una casa di campagna altrettanto umida, abbandonata, notturna. E poi mi rifaccio sempre a Grotowski, il quale diceva che quando si deve interpretare un vecchio, di solito si cade nello stereotipo. In effetti, non dovremmo pensare a un vecchio generico, bensì a una persona che ha fatto davvero parte della nostra vita. Dobbiamo rivedere quel nonno o bisnonno nella nostra mente, osservare come stava seduto, come si muoveva, se camminava eretto, e prenderne il gesto».

Com’è nata l’esperienza teatrale di Pontedera, centro ormai internazionalmente riconosciuto?
D.M.
: «Già mentre frequentavo l’università, facevo dei piccoli lavori teatrali a Pontedera, Pisa e Livorno. Dopo queste prime esperienze, che mi portarono fino in Spagna, per una tournée con Ruggero Jacobbi, rientrai a Pontedera e creai un gruppo di studio. Iniziai a tenere dei seminari in cui si metteva in pratica ciò che si leggeva sui libri. Cominciammo con Il lavoro dell’attore su se stesso di Stanislavskij, e continuammo con Alla ricerca del teatro perduto di Eugenio Barba. Da lì nacque l’idea di invitare a Pontedera tutti i maestri che avevano scritto i libri che stavamo studiando – tranne Stanislavskij, naturalmente. A quel punto iniziammo a fare teatro di strada e presentammo Frammenti, un lavoro che si ispirava agli scritti di Franco Quadri sull’esperienza del Living Theatre nelle favelas brasiliane. Vennero in molti a vederci, tra i quali un giovane D’Alema e un altrettanto giovane Quadri. Dopodiché decidemmo di andare in Danimarca. Siccome eravamo in epoca post-sessantottina, scrivemmo a Eugenio Barba presentandoci come un gruppo di operai, chiedendogli di essere invitati nel suo teatro. E con questo trucco, siccome Barba voleva passare per aperto alle masse (come si diceva allora), ci invitò a raggiungerlo. Così, l’intero gruppo di Pontedera partì: senza una lira, con un pullmino Seicento e una Mercedes prestata da un amico».

G.D.: «Ricordo che arrivammo da Eugenio con in testa tante coroncine di fiori. E Barba, ancora oggi, mi rammenta che ne rimase sconvolto. Quella fu anche l’occasione per conoscere Roberto Bacci. Barba, infatti, ci disse che un giovane italiano aveva fatto una tesi sull’Odin Teatret e ci chiese di consegnargli dei documenti. Rientrati in Italia, lo chiamammo e si unì al nostro gruppo di Pontedera».


Quando conosceste Grotowski?

D.M.
: «Qualche anno più tardi, nel 1975. Durante una Biennale di Teatro a Venezia. Anche Carla Pollastrelli era là (premio Ubu 2015 per la fondamentale opera di diffusione del pensiero di Jerzy Grotowski, n.d.g.), e tutti insieme partecipammo a questi incontri che Grotowski tenne a San Giacomo in Palude. In seguito, Carla decise di trasferirsi a Pontedera e aderire al nostro gruppo tenendo i rapporti internazionali. Così continuammo la pratica di invitare i grandi maestri del teatro che – cosa che oggi sarebbe impossibile – venivano volentieri. Nonostante non avessimo nemmeno un vero e proprio teatro. Grazie all’aiuto del Comune, eravamo riusciti a occupare il retro di una vecchia villa – che era stato affidato, in un primo tempo, a una banda. Lì iniziò l’avventura di Pontedera».

Come nacque il sodalizio con Jean-Marie Straub e Danièle Huillet? E quali componenti poetiche vi hanno uniti?
D.M.
: «Quando li abbiamo conosciuti eravamo già vecchi» Marconcini ride sornione: «Io sono sempre stato il più vecchio di tutti, fin da quando avevo vent’anni! Ma torniamo seri. Jean-Marie era già stato a Buti per girare, nel ’79, Dalla nube alla Resistenza, e poi vi era tornato più volte. Una sera, ci invitarono a casa di amici, dicendoci che c’era questo regista con la moglie e, se volevamo incontrarli, potevamo unirci. Così, per caso, vedemmo per la prima volta questa coppia straordinaria, che ci affascinò letteralmente. Danièle era una donna di una classe straordinaria. Poteva essere vestita malissimo, ma sembrava sempre elegantissima. Jean-Marie, al contrario, con il suo sigaro tra le labbra, era di una freddezza raggelante. In quell’occasione, dato che volevo fare un lavoro su Hölderlin, mi venne in mente di proporre loro di proiettare alcuni film a Buti, compresi quelli ispirati alla tragedia del poeta tedesco, La morte di Empedocle (Der Tod des Empedokles, oder Wenn dann der Erde Grün von Neuem euch erglänzt del 1986; e Schwartze Sünde, del 1989, n.d.g.). Proiettammo quindi sei, sette film della coppia; e proposi anche a Straub di tornare in teatro per fare una regia. Da quell’anno, presero a venire a Buti, verso marzo, soggiornando circa quattro mesi in un agriturismo sperduto in una vallata che lui amava molto. Per Straub, Buti era come il Grand Canyon per John Ford».

G.D.: «Non solo la amava, ma ne conosceva ogni sasso, albero o sentiero. Ogni anno, quando tornava, si accorgeva del più piccolo cambiamento: se avevano tagliato un ramo, se era caduto un tronco, se erano cresciute nuove specie. Mentre Danièle dedicava il suo tempo ai cavalli e alle caprette di un contadino della zona. Trascorrevano le giornate passeggiando e studiando, circondati dai loro amatissimi gatti – in quel posto semplicemente allucinante».

D.M.: «Straub era anche affascinato dagli attori del Maggio perché riconosceva loro precisione nel canto, chiarezza nella voce, ma distanza dal personaggio. Straub si concentrava solo sul testo, quasi fosse una partitura musicale e le parole fossero note. Le sue istruzioni erano quelle di un compositore: “Alto, basso, lungo, taglio, controtaglio, sospensione, conta fino a tre, due, quattro”. Per lui le pause erano respiri. E il respiro è ciò che dà forza, è il soffio vitale. In tanti anni di lavoro insieme solo una volta mi disse qualcosa di diverso, facendo propria una frase di Faust: “Fermati attimo, sei bello”. Per il resto non ricevevamo mai nessuna istruzione. Il lavoro era focalizzato sulla lettura metodica del testo, la scansione di ciascuna parola – compresi gli articoli e le preposizioni – e la dizione precisa. Durante la loro permanenza a Buti, ho girato con loro tre film e Giovanna quattro. Abbiamo collaborato per oltre dieci anni sia a livello teatrale che cinematografico. E la coppia ha anche ricevuto il Leone d’Oro a Venezia per un film girato qui (Quei loro incontri, premio speciale per l’innovazione del linguaggio cinematografico nel 2006, n.d.g.)».

getfileattachment-1Ci furono molte polemiche intorno a quel Leone d’Oro. Giovanna Daddi lesse il discorso scritto da Jean-Marie Straub per l’occasione. Si ricorda cosa accadde?
G.D.
: «Jean-Marie mi incaricò di andare a ritirare il Premio, ma prima mi diede tre fogli da leggere, molto duri, contro il Festival, la polizia e gli Stati Uniti. Mi disse: “Se hai il coraggio di leggerle, queste sono le mie dichiarazioni”. Naturalmente i giornali, il giorno dopo la proiezione, non uscirono con una recensione del film bensì in polemica con le asserzioni di Straub (che scriveva, fra l’altro: “Il terrorista sono io e vi dico, parafrasando Franco Fortini: finché ci sarà il capitalismo imperialistico americano, non ci saranno mai abbastanza terroristi nel mondo” e riguardo al premio: “È venuto troppo presto per la nostra morte, troppo tardi per la nostra vita”, n.d.g.). Comunque, io mi sono sentita come Cenerentola. Essere chiamata sul palco a ricevere il Leone d’oro, insieme a Helen Mirren (protagonista di The Queen, n.d.g.) e a tutte le altre star, fu un’emozione».


I vostri Pinter (come la Trilogia della Memoria, rappresentata recentemente) dimostrano la vostra capacità di entrare in sintonia con l’autore inglese, rifuggendo dal personaggio naturalista.
G.D.
: «Quando ci siamo chiesti come interpretare Pinter, abbiamo deciso di partire da uno tra i diktat di Straub: l’immobilità. Faccio un esempio. In Silenzio, il mio era tutto un gioco di visioni e piccoli movimenti. Ero sempre seduta, ma in certi momenti avevo una gamba accavallata, in altri i piedi sospesi morbidamente. Questi gesti quasi impercettibili mi mettevano di fronte a situazioni diverse, che spero il pubblico abbia percepito. Dalla donna sperduta alla bambina sperduta, fino alla donna innamorata, e ognuna prendeva vita con un minimo movimento».

D.M.: «Il nucleo centrale del lavoro, per noi, era il tempo, inteso come il tempo della vita. Il testo, e ogni frase, come ci ha insegnato Jean-Marie, erano contrassegnati da una o più righe che corrispondevano ai tempi del respiro. E questo respirare ci trasportava lontani nel tempo ma ci dava anche il tempo per affrontare la frase successiva, toccando corde diverse, di fronte a visioni diverse».

Com’è cambiato il teatro contemporaneo dagli anni Settanta a oggi?
D.M.
: «In quel periodo eravamo molto liberi, in un certo senso rivoluzionari. Purtroppo, noi che allora uscimmo dai teatri, siamo poi rientrati nelle istituzioni. Non a caso, quando fummo invitati a Roma, decidemmo di andare alla Magliana piuttosto che in centro. E il rapporto con il pubblico era straordinario. L’idea era portare il teatro dove non era mai arrivato. Il teatro eravamo noi stessi, senza orpelli o scene, direttamente in strada. Allora si andava nei paesi, anche in quelli piccoli, con i tamburi, per farsi vedere, per attrarre l’attenzione. E la gente usciva di casa, si affacciava dalle finestre. Alcuni ci trattavano anche male. Una volta fui persino preso a sassate. Ma dalla strada, pian piano, siamo tornati tutti sul palcoscenico».

Come recuperare il rapporto con il pubblico che si era instaurato in quegli anni, magari anche polemico ma vitale?
G.D.
: «Certamente c’erano le polemiche. Ricordo che al termine di ogni proiezione o di ogni spettacolo c’era il dibattito. La serata non finiva mai. Ma c’era la vicinanza, non si temeva la contiguità con gli spettatori. Ecco perché amo il Minimacbeth, perché spettatori e attori agiscono a stretto contatto. Il pubblico siede nella sala del trono, ed è nostro complice. Non è un caso che alla fine dello spettacolo, gli spettatori non se ne vadano via subito, frettolosamente, ma rimangano seduti, godano del piacere di salutarsi e compartecipare dello stesso rito laico».