Lumpazivagabundus

Come la semplice parola di poesia può diventare fascinoso evento spettacolare.

Sul programma di sala, un foglietto con una foto volutamente mossa, suggestiva nella sua criptica ambiguità, si leggeva la seguente frase: “parole scelte e interpretate da Emanuela Villagrossi”. Non quindi un semplice recital, un’antologia poetica, ma un progetto più strutturato ed ambizioso.

Fin dal suo apparire, avvolta in un frusciante abito da sera, Emanuela si impone con tutta l’autorevolezza della sua figura. Le luci di taglio disegnano le spalle, le braccia, il volto di una donna la cui immagine sembra magicamente scolpita dai segni del tempo, che ne hanno esaltato il fascino; e il suo corpo esprime un erotismo che supera di mille lunghezze le levigate nudità al silicone che i media ci propinano ossessivamente.

L’attrice si sposta in uno spazio scenico che invade anche la piccola platea del Teatro Officina, catturando le lame di luce che lo attraversano, lasciandosi accarezzare da un continuum di proiezioni, di immagini realistiche (fili d’erba, inflorescenze, nudi interni di case, finestre che si aprono sul verde) che sembrano invece segni astratti, che ricordano le figure camminanti di Alberto Giacometti, o gli algidi interni dell’iperrealismo americano.

In questo spazio dinamico, ora a viva voce, ora mediata da un microfono, Emanuela propone la parola di Dante, che sfuma, senza soluzione di continuità, in un frammento della Terra desolata. Ma questa apparente provocazione dadaista, alla Duchamp, è invece materiata dal profondo nesso culturale fra i due poeti, una citazione a contrario dei crediti danteschi di Eliot.

Più oltre, invece, come per uno sberleffo, nelle terzine di Dante irrompono i versi della canzone Un angelo blu, dell’Equipe 84 e, sul finale, Bang Bang, cantata da Nancy Sinatra.

La metrica di Dante, nel porgere di Emanuela, viene volutamente slogata, specie dove più forte è la suggestione emotiva, come nell’episodio di Paolo e Francesca, dove la poesia si fa carne e sangue, e la passione d’amore sembra fluire con naturalezza dall’intera figura, ora in abito rosso fuoco, da cocktail, che le lascia scoperte le gambe nervose. E, nuovamente a leggio, le basta spostare indietro un piede e curvarsi impercettibilmente in avanti per inventare una nuova, vibrante costruzione plastica, prima di ritornare al centro dello spazio scenico per disegnare nell’aria, con le braccia, le vocali dell’alfabeto euritmico steineriano.

Pur in un contesto così denso di riferimenti colti, Emanuela riesce a esprimere e comunicare una partecipazione emotiva che va dritto al cuore dello spettatore, e questi si lascia cullare, anche dal suono degli arcaici stilemi danteschi.

È raro che la parola, i gesti, la postura, le immagini, le minimali invenzioni coreutiche, trovino in uno spettacolo teatrale un’armonia compositiva così ricca, eppure essenziale e nitida; merito, sicuramente dell’attenta regia di Maria Arena, delle creazioni di arte visuale di Stefano Arienti; ma specialmente dell’intelligenza, dal gusto, dal fascino magnetico di una della più interessanti attrici italiane della sua generazione.

Lumpatius Vagabundus