Teatro e guerra: oltre i confini storici e politici

Per la seconda giornata di TeatRomania giunge a Roma, in prima nazionale, l’ultimo lavoro del pluripremiato Matei Vişniec. Un testo drammaturgico forte, dalle tematiche complicate, che travalica la mera dimensione storica e politica per arrivare a parlare della condizione umana tout court, senza tuttavia mai perdere di vista la specificità di una antropologia basata sui ma e definita – ironicamente, ma non troppo – balcanica.

Nato in Romania, vissuto sotto il regime di Ceauşescu e costretto a chiedere asilo politico in Francia per la censura a cui sono stati sottoposti i suoi testi teatrali, Matei Vişniec si è conquistato il posto più alto sul podio degli autori rumeni contemporanei. Apprezzatissimo in Francia dove, tra gli altri, ha vinto il Prix coup de cœur de la presse Avignone Off 2008 per la pièce Les détorus Cioran, ou Mansarde à Paris avec vue sur la mort (Gli sviamenti di Cioran, ovvero Mansarda a Parigi con veduta sulla morte), dopo la caduta del muro di Berlino è divenuto uno degli autori più rappresentati in Romania e, a oggi, le sue opere sono state tradotte e messe in scena in oltre venti paesi.
Del sesso della donna come campo di battaglia nella guerra di Bosnia può essere considerato una sorta di compendio di tutte le tematiche trattate da Vişniec anche se è permeato da un realismo che si distacca dall’assurdo e dal grottesco che hanno caratterizzato le sue opere precedenti.
L’atroce solitudine dell’essere umano contemporaneo, le nevrosi, le angosce esistenziali si fondono con la vicenda del popolo romeno e, in generale, delle popolazioni balcaniche a seguito degli anni bui della dittatura prima e della guerra di Bosnia poi, diventano le une causa e contemporaneamente conseguenza delle altre.

A tracciare le tragiche conseguenze di quella «non-soluzione che è la guerra» sono due donne, entrambe vittime, seppure in maniera diversa e opposta. In una asettica stanza di una clinica per la cura delle donne violentate e rimaste incinte durante la guerra, si incontrano Kate e Dorra. La prima è una psichiatra americana, madre di famiglia, che ha dovuto lasciare il suo paese per scavare le fosse comuni della Bosnia. A queste spedizioni prendono parte squadre composte da archeologi, speleologi, medici e psichiatri: questi ultimi hanno il compito di affiancare, sostenere psicologicamente e moralmente gli altri membri dell’equipe. Ma Kate, giunta in Bosnia con la speranza di trovare ancora dei sopravvissuti, crolla e chiede di essere trasferita. Nella clinica incontra Dorra, una giovane donna ormai diventata il fantasma di se stessa, vittima di uno stupro di gruppo durante la guerra, che porta in grembo anche il frutto inconsapevole e ignaro di quella stessa atrocità. Inizialmente pare non esserci alcuna possibilità di dialogo fra le due: Kate scrive rapporti precisi e puntuali sulla paziente – alternando definizioni antropologiche dell’uomo/guerriero dei balcani, enunciate come assiomi scientifici. Dorra pare rifugiarsi completamente nel suo mondo interiore popolato di demoni e creature mostruose e voraci, alimentato dall’odio verso un Dio che se permette tanta violenza è solo perché è di essa che si nutre. Lo scarto avviene quando Kate per prima ammette di avere lei stessa bisogno di Dorra per rispondere all’interrogativo che l’ha fatta crollare: perché? Quale è il senso di tutto ciò? E la risposta la trovano entrambe, insieme, nel bambino che Dorra porta in grembo. Si delineano così le visioni inizialmente opposte e contrarie delle due protagoniste: per Dorra quel bambino è solo il frutto dell’odio che guerre inutili alimentano, è il simbolo di un paese e di un popolo tormentato, straziato in nome di un’appartenenza a una patria che in realtà assurge solo a territorio di conquista da parte di poteri senza scrupoli. È, dunque, Kate a rappresentare il contraltare positivio: forse per la sua ingenuità o, più plausibilmente, per quell’attaccamento alla vita che si esplica nella volontà di trovare un senso a tutto. Forse per questo individua nel bambino la sola via di salvezza. Poiché egli sarà quel sopravvissuto, come lo sono lei e Dorra, che a lungo e invano aveva cercato nei campi comuni in Bosnia.

A questa strada verso un finale consolatorio, ma non banalizzato e banalizzante, si interseca un sottotesto che dà anche voce alle idee dell’autore. Nei dialoghi tra Kate e Dorra trovano spazio quadri che definiscono la figura dell’uomo dei balcani che, per certi aspetti, ricordano i ritratti degli emigranti italiani tracciati da autori come John Fante. Come lo stereotipo del maschio che dopo il lavoro si rifugia nell’alcool e nella violenza domestica sulla moglie. Quel maschio che, così facendo, trascura i figli per non sentire il peso storico dell’eredità che raccoglie chiunque nasca e viva nella penisola balcanica, ma che poi si abbandona alle fragilità nell’abbraccio dolce e mite di una moglie pronta a comprendere, pur senza perdonare. L’ironica e grottesca filosofia del ma (daar), nella quale si nasconde la chiave dialettica della popolazione bosniaca, coincide con quella tipica affermazione per cui ci si dichiara «non sono razzista, ma…». In questo senso sì che i Balcani sono dappertutto, proprio come dichiara Dorra.

Pur prive esaustività culturale e precisione clinica, i continui richiami alla teoria freudiana rendono bene il senso di un allestimento capace di turbare lo spettatore con poderoso realismo tanto nella comprensione razionale quanto nella sensibilità emotiva. Difficile individuare il climax di questo sconcerto esistenziale, vista la ricchezza narrativa e la complessa umanità rappresentata. Forse, associato a vertici anche di particolare lirismo drammaturgico, potrebbe essere la descrizione di come l’ineliminabile componente psichica dell’aggressività sfoci nella doppia, inconscia e crudele veste dell’offesa e della difesa. Perché se appare ovvio che alla prima appartengano gli stupratori di altra etnia (spesso «i vicini di casa»), dilaniano parole che ci ricordano come a tali violenze sessuali ne seguano di più feroci. Quelle messe in atto dagli stessi fratelli, uomini brutali intenti a punire ulteriormente, come se fosse una colpa o un peccato, gli abusi subiti da quelle che poi sarebbero sorelle, madri e figlie di sangue. Maschi, a parafrasare il titolo della pièce, che combattono (ben poco virilmente) su quel campo di battaglia che sarebbe il corpo della donna.

Difficile rendere le tante suggestioni che provengono da un testo così profondo e preciso, da una messinscena tanto semplice quanto efficace e da una recitazione empatica, piena di pathos ma mai fuori parte. Un’opera che deve essere vista e che racchiude perfettamente in se stessa il senso e lo scopo di un festival che va preservato per il suo valore intrinseco, sociale e culturale.

E che, ricordiamo, prosegue questa sera con la prima romana di Ombre nel bosco, una produzione di Telluris Associati di Pontedera, e la prima nazionale di Aspettando Alice ­della compagnia romena Atelier45.

Lo spettacolo è andato in scena all’interno di TEATROMANIA emersioni_sceniche
Accademia di Romania
Villa Borghese, Roma
sabato 28 giugno ore 21.30

Del sesso della donna come campo di battaglia nella guerra di Bosnia – prima nazionale
di Matei Vişniec
regia Muriel Manea
con Irina Bodea-Radu e Bianca Holobuţ
scenografia Eliza Labancz
produzione Teatrul „I. D. Sîrbu”, Petroşani
con sovratitoli in italiano